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La lotta anti-Lgbt di Polonia e Ungheria mette in crisi l’Ue

Tempo di lettura stimato: 6 min.

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Se da una parte l’Ue si sta impegnando nel garantire la protezione dei diritti Lgbt+ a livello comunitario, le posizioni discriminatorie assunte da Ungheria e Polonia negli ultimi anni non fanno che intaccare l’immagine del progetto di inclusione europeo. 

Sebbene in Europa oltre i tre quarti della popolazione si professi a favore dell’uguaglianza dei diritti per le persone Lgbt+, il sistema di tutele legali contro la discriminazione basata sull’orientamento sessuale appare ancora poco sviluppato, e limitato principalmente all’ambito lavorativo. 

L’Ue, in effetti, può fare poco, se i singoli Paesi membri per primi non si impegnano in questa lotta, e la recente legge ungherese che bandisce la diffusione di contenuti pro-Lgbt+ nelle scuole è solo l’ultima di una lunga serie di contravvenzioni che l’Ungheria, così come la vicina Polonia, ha introdotto negli anni. I membri dell’Ue sembrano uniti nel disapprovare il comportamento di Budapest e di Varsavia, ma minacce e processi legali contro questi due paesi non sembrano sufficienti a farli allineare ai valori fondamentali dell’Unione.

Love is love, ma non in Ungheria

Come leader di Fidesz, Viktor Orban ha lavorato in questi quattro mandati per realizzare le aspettative del suo partito nazional-conservatore, populista e illiberale che da anni gode di una maggioranza in parlamento. Il leader magiaro è riuscito ad acquisire un controllo sempre maggiore sulle libertà civili, fino a modificare la costituzione affinché assumesse una morale conservatrice e religiosa.  Ovviamente, le comunità Lgbt+ sono state fortemente colpite, non solo perché non ci sono stati sviluppi significativi nella protezione dei loro diritti, ma anche per i vari interventi da parte dello Stato che stanno, di fatto, limitando ancora di più le loro libertà.

L’ultima legge anti Lgbt+ che ha provocato l’orrore di molti leader europei si trova all’interno di un provvedimento contro la pedofilia al quale i membri del Fidesz hanno annesso delle normative che vietano di affrontare e promuovere temi legati all’omosessualità in contesti pubblici frequentati da minori. Tale legge non dovrebbe sorprendere, soprattutto se ricordiamo la reazione dei sostenitori del governo alla campagna pubblicitaria della Coca-Cola Love is Love” che vedeva una coppia gay sui manifesti. Oggi, quei poster verrebbero considerati illegali.

Ad aggravare la situazione, c’è da ricordare l’emendamento alla costituzione approvato dal parlamento ungherese lo scorso dicembre. La definizione di famiglia, infatti, è stata modificata in modo da impedire del tutto la possibilità di adozione da parte di coppie aventi lo stesso sesso. Un giorno definito “nero nella storia dei diritti umani, ma che ha trovato supporto in altri paesi del Visegrad.

Poster di "Love is Love" [crediti foto: Yoav Hornung via Unsplash]
Poster di “Love is Love” [crediti foto: Yoav Hornung via Unsplash]

Polonia: “Zona senza Lgbt+

Le azioni di Budapest sembrano aver provocato molto rumore, ma se c’è un Paese che può definirsi il peggiore nella protezione delle comunità Lgbt+, questo è la Polonia. Ilga Europe la pone all’ultimo posto tra i paesi dell’Unione, e la sua performance nella tutela dei diritti Lgbt+ risulta solo leggermente migliore rispetto a Turchia, Bielorussia e Russia.

Oltre a rimanere l’unico Paese dell’Unione in cui non vengono riconosciute in alcuna forma legale le coppie dello stesso sesso, il Partito Diritto e Giustizia (Pis) da qualche anno a questa parte sta approfittando del sostegno della Chiesa e del sentimento omofobo più diffuso nel sud-est del Paese per attuare una decisa stretta conservatrice. Varie regioni sostenitrici del Pis hanno iniziato ad adottare, in modo spontaneo, delle risoluzioni anti-Lgbt+ in risposta alla dichiarazione sulla lotta alle discriminazioni firmata dal sindaco di Varsavia nel 2019. Nonostante tali risoluzioni non avessero alcun valore giuridico, la loro portata simbolica ha smosso l’Unione Europea. Particolarmente sconvolgente è stata la diffusione di etichette recanti la scritta “zona senza Lgbt”, esposte, ad esempio, sulle porte d’ingresso dei ristoranti. Tali etichette sono state denunciate da Robert Biedroń al parlamento europeo. Una situazione al limite che richiama tragicamente la ghettizzazione degli ebrei.

La reazione dell’Europa

In risposta alla legge anti-Lgbt+ ungherese, la Presidente della Commissione Europea Von der Leyen ha definito tale normativa vergognosa e contraria ai valori fondamentali dell’Unione. A suo tempo, rispose anche alla questione polacca, additando le “zone senza Lgbt+” come “zone senza umanità” che non possono trovare posto nell’Ue.

Inoltre, alcuni membri particolarmente virtuosi nella protezione sociale e legale delle comunità Lgbt+ sul loro territorio (Malta, Belgio e Lussemburgo in particolare), non sono rimasti a guardare. L’iniziativa belga di sottoscrivere una dichiarazione condivisa contro la discriminazione Lgbt+ in Ungheria, in quanto violante la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Ue, ha raccolto il consenso di ben diciassette membri Ue, Italia inclusa. 

Anche nel caso della Polonia, l’Ue si è dimostrata reattiva nel manifestare disappunto. I fondi europei e norvegesi originariamente destinati alle “città senza Lgbt+” sono stati prontamente ritirati, al punto che la località di Nowa Deba, nel sud-est della Polonia, ha ritirato la propria risoluzione, spiegando di quanto questa stesse nuocendo alla città. Per di più, la questione ha portato il Parlamento europeo a proclamarsi, ufficialmente, zona di libertà per le persone Lgbt+.

La minaccia è sufficiente?

Tuttavia, per quanto siano nobili i propositi dell’Ue, gli strumenti in suo possesso non sembrano essere sufficienti a far desistere Ungheria e Polonia nel loro comportamento.

Le leggi e le iniziative contro la comunità Lgbt+ sono, infatti, una minima parte delle misure che violano i valori fondamentali dell’Unione e che Budapest e Varsavia stanno via via adottando, senza riguardo per lo Stato di diritto e le istituzioni democratiche.

Entrambi i Paesi hanno adottato strategie per aggirare la pressione da Bruxelles: ad esempio, stilando lunghi documenti che giustificano le proprie azioni, e andando in cerca del sostegno degli altri Paesi membri, principalmente del blocco Visegrad. 

Ad oggi l’Ue non sembrerebbe in possesso di strumenti efficaci per modificare la condotta di Ungheria e Polonia, anche perché i trattati europei non includono delle clausole per l’esclusione di un membro dall’Unione in caso di violazione dei principi fondamentali. L’unica soluzione che sembra possa portare a qualche progresso è bloccare i fondi europei destinati a entrambi Paesi, i quali ricevono infatti ingenti somme ogni anno. Von der Leyen ha dato un ultimatum all’Ungheria in vista della plenaria dell’europarlamento di giovedì 8 luglio, in cui si voterà una risoluzione sulle violazioni del diritto dell’Ue e dei diritti Lgbt+ nello Stato in questione. La minaccia potrebbe tradursi in una severa punizione che inciderebbe, tra le altre cose, sul Recovery Plan ungherese.

L’Italia tutela i diritti Lgbt+?

L’Italia è tra i paesi che ha sottoscritto la petizione belga contro l’Ungheria, ma solo dopo una lunga attesa, quando gli altri “grandi” dell’Europa avevano firmato subito senza indugi. Il comportamento del Bel Paese è sintomatico di quanto controversi risultino ancora gli argomenti legati all’omosessualità, come evidente anche dal polverone alzato di recente con il ddl Zan

In effetti, secondo la classifica stilata da Ilga Europe, l’Italia avrebbe conseguito un punteggio inferiore rispetto a quello dell’Ungheria in termini di protezione legale dei diritti Lgbt+. Un dato soprendente, considerando che l’Eurobarametro sulla discriminazione 2019 conviene che il 68% degli italiani si dica favorevole a istituire pari diritti con le persone Lgbt+, una media che rimane più bassa di quella europea (76%) ma sicuramente più alta del Paese governato da Orban (48%). 

La scarsa prestazione del nostro Paese è dovuta non tanto all’accettazione delle comunità Lgbt+ dal punto di vista sociale, ma piuttosto da quello legale. Il sistema di leggi per la punizione dei crimini di discriminazione di genere e di riconoscimento giuridico dei diritti Lgbt+ appare, in Italia, meno sviluppato rispetto a molti Paesi europei. 

Ad esempio, approvata relativamente di recente nel 2016, la legge Cirinnà permette solo unioni civili tra cittadini aventi lo stesso sesso, e non è ancora sufficiente a fare in modo che l’adozione sia consentita a una coppia omosessuale.

Nel gennaio 2019, l’allora Ministro dell’interno Matteo Salvini modificò un decreto per il ritiro delle carte d’identità elettroniche, stabilendo che potessero essere rilasciate unicamente alla madre e al padre, quando originariamente veniva genericamente riferito come “genitore”. 

L’Ue, e con essa l’Italia, è ancora lungi dall’essere una zona di piena libertà per le persone Lgbt+. Nonostante la crescente accettazione sociale, che potrebbe costituire un forte impulso politico, i discorsi d’odio si presentano anche nei Paesi più tolleranti, dove spesso mancano ancora strutture legislative di tutela nei confronti di tali comunità.

 

*Parata Lgbt con cartelli di protesta “Love is a human right”, Londra 2016 [crediti foto: Ian Taylor via Unsplash]
Chiara Manfredi
Il mondo è troppo vario per avere un solo punto di vista e poche passioni. Laureata in International Relations tra MGIMO e LUISS Guido Carli, sono alla constante ricerca di nuove esperienze per appagare la mia curiosità, che sia dentro un libro o in un viaggio avventuroso.

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