Le reazioni italiane, nel corso degli anni, non hanno seguito sempre lo stesso tracciato, a causa di una moltitudine di fattori; tra questi, ad esempio, il periodo storico, la maggioranza al governo, il coinvolgimento del nostro Paese nelle vicende e gli equilibri a livello internazionale.
Ma quali sono state nel dettaglio le risposte dei governi italiani ai momenti di maggior tensione della storia recente? Le linee seguite hanno portato al nostro Paese più benefici o più danni?
La crisi di Sigonella e le tensioni Italia-USA (1985)
Il 7 ottobre 1985 la nave da crociera italiana “Achille Lauro” sta navigando in acque egiziane quando quattro terroristi iniziano a seminare il panico, prendendo in ostaggio le circa 430 persone a bordo e sparando in aria numerosi colpi di arma da fuoco.
I terroristi dichiarano di appartenere all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), il cui leader Yasser Arafat è subito contattato dal Ministro degli Esteri Giulio Andreotti, che nel frattempo ha dichiarato lo stato di crisi.
A differenza di Andreotti, il quale non è particolarmente ostile ai Paesi mediorientali, il Ministro della Difesa Giovanni Spadolini appare molto avverso a trattare con i palestinesi, adottando di fatto lo stesso approccio del presidente statunitense Ronald Reagan.
Quest’ultimo diviene presto un attore importante della vicenda, in quanto i terroristi, nel frattempo, hanno ucciso un cittadino americano a bordo della nave.
Dopo che l’imbarcazione è stata liberata (con la mediazione di Abul Abbas – uomo di Arafat – e con concessioni da parte dell’Italia), il 10 ottobre, in tarda serata, i caccia americani intercettano l’aereo su cui viaggiano i terroristi in direzione Tunisi e gli ordinano di atterrare in Sicilia, sulla base Nato di Sigonella. Il Presidente del Consiglio Craxi concede il permesso solo dopo un lunghissimo braccio di ferro con Reagan.
Atterrato nella base, l’aereo viene accerchiato prima dalla Vigilanza dell’Aeronautica Militare, poi dai militari americani ed infine dai Carabinieri: la tensione fra Italia e Stati Uniti è ai massimi storici, e si rischia uno scontro armato.
Solo nelle primissime ore del mattino seguente avviene la distensione tra Craxi e Reagan, ma non quella tra lo stesso leader socialista e Spadolini, che da convinto filoamericano non ha tollerato i no a Washington e il 16 ottobre decide di ritirare dall’esecutivo i propri ministri.
La Prima Guerra del Golfo e la gestione Andreotti (1990-91)
Il 2 agosto del 1990 l’Iraq di Saddam Hussein (appoggiato dall’Oman e dall’OLP) invade il vicino Kuwait per questioni legate alle riserve petrolifere e al controllo sul territorio; l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) reagisce con dure sanzioni ed impone il ritiro delle truppe irachene, senza ottenere risultati.
È così che il 16 gennaio successivo gli Stati Uniti decidono di intervenire militarmente, mettendo insieme una coalizione composta da 34 nazioni, fra cui l’Italia.
Il nostro Paese, come annuncia il giorno seguente il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, ha deciso di concorrere ad un’azione militare: è la prima volta dal 1945.
Lo stesso Premier, che ricopre contestualmente anche il ruolo di presidente di turno della Comunità Economica Europea, aveva però cercato invano la soluzione della pace attraverso un appello alla tregua già durante l’autunno, cercando di far leva sui (fino ad allora) buoni rapporti con Saddam e Arafat.
Ancora una volta, dunque, Andreotti aveva tentato di percorrere in primis la strada del dialogo con i Paesi del mondo arabo, preoccupato che un conflitto armato in quelle aree avrebbe potuto turbare i già precari equilibri mediorientali; la pressione degli Stati Uniti di Bush, però, prevale, e l’Italia si ritrova a schierare 1950 militari.
In questo caso, dunque, il nostro Paese si dimostra fedele al sodalizio con gli USA, rinsaldando quell’atlantismo che stava rischiando di venire meno con le vicende di Sigonella di 6 anni prima.
La guerra si concluderà il 28 febbraio del 1991, con la vittoria della coalizione e il ritiro delle truppe irachene, e con migliaia di morti tra i civili.
D’Alema e l’Operazione Allied Force (1999)
Le guerre jugoslave, durate in tutto dieci anni a partire dal 1991, sono i primi conflitti armati combattuti sul territorio europeo dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
Fra questi scontri è il penultimo, quello del Kosovo (1998-1999), quello che vede il più significativo intervento italiano.
Il 24 marzo 1999, quando il conflitto tra la Repubblica Federale di Jugoslavia guidata da Milosevic e l’Esercito di Liberazione del Kosovo ha ormai raggiunto l’apice della violenza ed ogni tentativo di tregua è ormai fallito, la NATO decide – per la seconda volta nella sua storia – di intervenire militarmente.
Come anticipato, l’Italia, governata dai Democratici della Sinistra (DS) di Massimo D’Alema, gioca un ruolo chiave, grazie all’appartenenza all’alleanza e alla posizione strategica: è infatti dalle basi nel nostro Paese che decollano gran parte degli aerei destinati a bombardare le città di Pristina, Belgrado e Podgorica, inizialmente con lo scopo di riportare Milosevic al tavolo delle trattative.
L’operazione però è molto più lunga ed efferata del previsto, e pur portando al ritiro del leader jugoslavo nel mese di giugno, causa la morte di 2500 civili (tra cui 89 bambini), oltre che 12500 feriti e un numero imprecisato (ma prossimo al milione) di profughi.
D’Alema si era insediato a Palazzo Chigi pochi mesi prima, anche per via dell’acuirsi del conflitto (il Governo Prodi era caduto e il Capo dello Stato Scalfaro non aveva intenzione di sciogliere il Parlamento in una situazione di emergenza).
In seguito alle richieste di Clinton di utilizzare le basi italiane senza però coinvolgere direttamente il nostro Paese nell’intervento, il Presidente del Consiglio risponde che “l’Italia non è una portaerei, e si assume la responsabilità di condurre l’azione militare al pari degli altri Paesi dell’alleanza”, attirando le ire della sinistra più convinta e le accuse di violare l’articolo 11 della Costituzione.
Malgrado tutto ciò, il nostro Paese tiene viva anche la strada del dialogo: è infatti l’unico a mantenere aperta l’ambasciata a Belgrado e trattare con Milosevic anche a bombardamenti iniziati.
Le guerre americane in Medio Oriente e i rapporti Berlusconi-Bush (2001-2006)
Il 12 settembre 2001, all’indomani del terribile attentato terroristico al World Trade Center di New York, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi telefona a George W. Bush per garantirgli, oltre che la solidarietà del popolo italiano, la propria collaborazione.
È così che, quando nei mesi immediatamente successivi il governo americano avvia la guerra al regime dei Talebani in Afghanistan (ritenuto responsabile dell’attentato delle Torri Gemelle) Berlusconi offre il contributo militare italiano.
Mentre l’intervento a Kabul raccoglie anche i favori della quasi totalità dell’opposizione in quanto è visto come indispensabile in un momento simile, la decisione di Silvio Berlusconi di appoggiare Bush anche nella Seconda Guerra del Golfo solleva molte polemiche.
Quest’ultima ha inizio il 20 marzo del 2003 per la volontà statunitense di deporre Saddam Hussein (accusato di supportare il terrorismo islamico e volersi dotare di armi di distruzione di massa), e vede l’immediato rifiuto di Paesi come Francia e Germania a prendere parte alle operazioni militari.
L’Italia guidata da Berlusconi, invece, partecipa, inviando un contingente di oltre 3000 uomini nel sud dell’Iraq, con base principale a Nassiriya. E’ proprio qui che perderanno la vita 19 cittadini italiani in seguito a un attacco kamikaze.
La decisione di sostenere Bush in questo secondo frangente è, come detto, fortemente impopolare presso l’opinione pubblica italiana, e suscita il parere contrario anche di due personalità di spicco come l’allora Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi e l’ex Premier Giulio Andreotti, peraltro entrambi storici sostenitori degli USA.
All’inizio delle operazioni, infatti, il Presidente della Repubblica cerca di opporsi all’invio delle truppe in Iraq, ed è pronto, dopo aver convocato il Consiglio supremo di difesa, a proporre la formula di “Paese non belligerante”; il testo viene sostanzialmente approvato, ma nel frattempo Berlusconi ha preso, quasi a titolo personale, un’altra posizione, e l’Italia è già stata inserita dagli Stati Uniti nella lista dei Paesi che interverranno con mezzi in assetto di guerra.
Andreotti, invece, criticherà a più riprese la scelta di Bush di attaccare Baghdad (“è una guerra profondamente ingiusta, motivata con l’esistenza di armi di distruzione di massa. Questo non era vero e gli americani lo sapevano”) e accuserà di ipocrisia il governo Berlusconi, mostrando dissenso in particolare verso le posizioni del Presidente del Senato Marcello Pera.
Nel gennaio 2006, dopo diverse altre morti, il governo Berlusconi decide di ritirare le truppe entro il novembre successivo, compito che sarà portato a termine dal successivo governo Prodi.
Lo scenario attuale: Draghi e la guerra in Ucraina
Parlando al Senato pochi giorni dopo l’invasione del Donbass, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha aspramente condannato le azioni della Russia di Putin, ed ha subito garantito pieno sostegno all’Ucraina, con aiuti a livello umanitario (accoglienza dei rifugiati) e militare, in concerto con l’Unione Europea e con la NATO in generale.
Il 29 marzo il Premier ha incontrato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per ribadire la volontà del governo di rispettare l’impegno, preso proprio nei confronti della NATO, di aumentare le spese militari al 2% del PIL; il giorno seguente, Draghi ha avuto un colloquio telefonico con Putin “per parlare di pace”, non prima di aver accolto l’appello che Zelensky gli aveva rivolto affinché l’Italia potesse tra i garanti di una eventuale tregua tra Russia ed Ucraina.