Da quel giorno sono passati ormai 32 anni, il posto della Cecoslovacchia è stato preso dai due Stati nati dalla sua dissoluzione, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, e quello che doveva essere un patto di amicizia tra quattro paesi storicamente e culturalmente vicini si è invece spesso rivelato un terreno di scontro, con frequenti contrasti tra gli stati membri.
Prima dei contrasti: le sfide all’Unione Europea
Non sempre la storia dell’alleanza è stata caratterizzata da discussioni e scontri: il quartetto di Visegrád ha trovato unità e coesione nell’opporsi ad alcune politiche dell’Unione europea, come la redistribuzione dei migranti sbarcati in Grecia e Italia, o le politiche in materia ambientale e antinquinamento. Riguardo queste ultime, i quattro condividono l’opposizione a un sistema europeo che regoli le quote di emissione di CO2, proponendo invece un sistema in cui ciascun paese ha la facoltà di stabilire autonomamente i propri obiettivi di riduzione delle emissioni, in quanto tutti, non a caso, sono ancora fortemente dipendenti dall’uso del carbone per il proprio approvvigionamento energetico.
Sul fronte dell’immigrazione, il Gruppo di Visegrád è stato tra gli oppositori più forti dello schema proposto nel 2015, durante la crisi migratoria, dalla Commissione europea per redistribuire migranti e richiedenti asilo arrivati in Europa, in supporto di Grecia e Italia, i due stati membri con il maggior numero ondate migratorie. Nonostante il Consiglio abbia approvato il ricollocamento di circa 100.000 richiedenti asilo dai due paesi, destinandone quote diverse agli altri stati membri dell’UE in base a popolazione, PIL, disoccupazione e numero di migranti già accolti, i quattro di Visegrád si sono rifiutati di implementare il meccanismo, chiudendo i propri confini ai richiedenti asilo. In risposta, la Commissione europea ha lanciato una procedura di infrazione contro Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, mentre la Slovacchia si è “salvata” accettando di accogliere sedici richiedenti asilo.
Due direzioni opposte
Uno dei primi segnali di rottura è scaturito dalle diverse linee politiche adottate dai singoli governi degli stati membri del V4. Il primo fronte è costituito da Polonia e Ungheria: i due hanno in comune un governo populista, euroscettico e conservatore, la prima con a capo il presidente ed esponente del partito di maggioranza “Diritto e Giustizia” Andrzej Duda, mentre la controparte ungherese è costituita da Viktor Orbàn e dal suo partito “Fidesz”. Entrambi, negli ultimi anni, si sono distinti per la forte opposizione a diverse politiche dell’Unione Europea e per la svolta illiberale del proprio governo, arrivando a finire entrambe sotto accusa per violazione dei valori fondamentali dell’UE, in base all’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea (TUE). Si tratta dei primi e finora unici casi, nella storia dell’UE, in cui si è avviata questa procedura, che può arrivare alla sospensione del diritto di voto nel Consiglio. L’articolo 7 è stato attivato contro la Polonia nel 2017, in seguito all’approvazione di una riforma della giustizia voluta dal governo di Varsavia che, secondo la Commissione, mette a rischio l’indipendenza dei giudici. La procedura contro l’Ungheria, invece, è scattata nel settembre 2018 con un voto del Parlamento europeo, a causa di accuse di violazione dei diritti di migranti e richiedenti asilo, restrizioni alla libertà di stampa, corruzione e conflitto di interesse da parte del governo di Budapest. Altri temi su cui Polonia e Ungheria si sono scontrate con l’Unione Europea sono il già citato piano per il ricollocamento dei migranti nel 2015 e la connessione dell’erogazione dei fondi del Next Generation EU al rispetto dello stato di diritto (viste anche le accuse su entrambe per la sua violazione).
Dall’altro lato, Slovacchia e Repubblica Ceca sembrano andare in una direzione opposta: con le elezioni ceche del 2021, il vantaggio dell’alleanza politica Spolu ha permesso l’ascesa di Petr Fiala come primo ministro. Il nuovo governo ha infatti deciso di non allinearsi con le tendenze illiberali polacche e ungheresi, e lo stesso ministro ceco degli affari europei Mikuláš Bek ha dichiarato che Praga non ha l’obiettivo di seguire la via di Budapest e Varsavia, bensì di avvicinarsi di più con i governi di Francia e Germania. L’elezione a presidente, nel 2023, di Petr Pavel ha confermato la linea pro-europea del paese e l’appoggio al matrimonio tra persone dello stesso sesso, a differenza di Polonia e Ungheria, dove vi è una forte discriminazione delle persone appartenenti alla comunità LGBTQ+. La Slovacchia sembra seguire la tendenza ceca, in quanto al momento è in carica il governo antipopulista ed europeista di Edvard Heger. La spaccatura politica pone quindi i V4 di fronte ad un bivio: da una parte ci sono Ungheria e Polonia, che sembrano voler contrastare ad ogni costo l’Unione Europea, dall’altra Repubblica Ceca e Slovacchia che invece vogliono continuare a sostenerla e rafforzarla.
La guerra in Ucraina: la fine del V4?
L’attuale situazione in Ucraina ha sancito un’ulteriore e profonda spaccatura all’interno dell’alleanza, tanto da far domandare a molti se il gruppo di Visegrad potrà sopravvivere a questa nuova crisi. In questo ambito si nota la compattezza di Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia in una posizione anti russa, mentre l’Ungheria, fortemente dipendente dal gas russo, ha optato per una posizione di neutralità, con Orban che si è presentato come sostenitore di Putin fino a quando ciò è stato possibile; alla neutralità non sono però mancate delle non tanto velate posizioni anti-ucraine, con delle discussioni con il governo di Kiev riguardo il trattamento della minoranza linguistica ungherese in Ucraina. La guerra in Ucraina sta soprattutto mostrando la fine di quella che sembrava l’alleanza più soda all’interno del V4, quella tra Budapest e Varsavia: infatti la Polonia, da sempre caratterizzata da forti posizioni antirusse, è una grande sostenitrice delle sanzioni contro Mosca, anche perché questa politica può permetterle di rinforzarsi sul suolo diplomatico e militare centro-europeo, in quanto maggiore investitore NATO della regione e una delle basi principali da cui si sviluppano gli aiuti umanitari per la popolazione ucraina. Dall’altro lato, l’Ungheria ha aderito solo parzialmente all’applicazione delle sanzioni, in quanto Orban non può permettersi di prendere le distanze dalla sua posizione filo putiniana, pena la rottura di uno dei capisaldi della sua linea politica e la possibile diminuzione di rifornimenti di gas russo. Sembra dunque che la collaborazione speciale e la compattezza dimostrata dai due paesi nel contrastare l’Unione Europea sia solo un ricordo, con il governo polacco che ha apertamente criticato la posizione filorussa di Budapest e ha annunciato la sua assenza all’incontro tra i ministri della difesa dei paesi di Visegrad nel marzo del 2022.
In aggiunta, anche il governo ceco ha preso le distanze dalla linea politica ungherese sulla situazione in Ucraina, con la stessa ministra della difesa ceca Jana Černochová che ha condannato la posizione putiniana ungherese, affermando: “Ho sempre sostenuto Visegrad e mi dispiace molto che il petrolio russo a buon mercato sia per i politici ungheresi più importante del sangue ucraino”.
Viene dunque naturale chiedersi se, in futuro, sentiremo ancora parlare del gruppo di Visegrad, o se questa crisi costituisce la fine di un’alleanza che, in fin dei conti, non è mai stata così solida come i suoi membri hanno spesso cercato di far credere.