In nome dell’industrialismo, Taranto ha concesso tutto: ambiente, salute, configurazione urbana e sociale. Per questo la sua crisi ha finito per coincidere con la crisi di un’intera idea di sviluppo, che ha costretto i lavoratori del siderurgico e dell’indotto e le rispettive famiglie, come il resto della città, a rimanere imbrigliati tra le preoccupazioni della paventata chiusura del centro e i danni legati alle esalazioni dei processi di produzione che lo riguardano. Guardare all’Ilva, quindi, non significa solo osservare un problema locale, ma toccare le crisi principali del nostro tempo: la questione economico-sociale, i nodi politico-giudiziari, la partita sanitaria ed ecologica. Sfida, questa, che coinvolge anche il governo Draghi, chiamato a confrontare le proprie ambizioni ambientaliste con l’intricata vicenda del polo siderurgico dalle elevate emissioni inquinanti.
Perché proprio Taranto?
Alla base del legame a doppio filo tra la città e il siderurgico ci sono i motivi che hanno condotto all’edificazione del centro industriale proprio a Taranto. Scelta presa ai tempi del dibattito sullo sviluppo del Mezzogiorno, gravato a metà anni ’50 da un ritardo endemico rispetto al Nord. È così che, quando le volontà politiche convergono sulla costruzione di nuove infrastrutture per il Sud, la scelta di Taranto è quasi naturale. La città, infatti, ha già vissuto l’industrializzazione a cavallo tra fine ‘800 e inizi ‘900, iniziata con la Marina e proseguita con l’Arsenale militare e i cantieri navali, che hanno stretto il tessuto cittadino attorno alla produzione bellica. Il disfacimento dell’arsenale e il ridimensionamento della cantieristica navale al termine della guerra, però, determinano la bomba sociale di 15mila disoccupati. Negli anni ’50, quindi, Taranto poggia su un territorio pianeggiante, bagnato dal mare e frustrato da una forte disoccupazione. L’Italsider sembra l’occasione per risollevare le sorti della città, e raccoglie i favori di cittadini e forze politiche che spingono per l’ampliamento di metà anni ’70, quando iniziano a delinearsi i tratti distintivi della Taranto odierna.
L’Ilva cambia anche la fisionomia di Taranto
L’Italsider, in breve, finisce per assorbire tutto, modificando anche la fisionomia cittadina. L’inurbamento di massa – con il passaggio dai 180mila abitanti del 1961 ai 230mila di inizio anni ’80 – provocherà a catena l’edificazione di quartieri periferici per consentire ai nuovi operai di vivere a ridosso della fabbrica. È la nascita della Salinella e del quartiere Paolo VI, pensato come dormitorio operaio e divenuto emblema della marginalizzazione sociale. A mutare, intanto, sono anche i quartieri preesistenti: tra questi il rione Tamburi, costruito nel 1955 come zona residenziale ma finito a confinare con l’impianto siderurgico, di cui respira quotidianamente le polveri. La tensione verso la fabbrica coincide così con lo svuotamento della città vecchia, che persisterà, a maggior ragione, negli anni della crisi del centro industriale e del conseguente decremento della popolazione. Con il fallimento delle partecipazioni statali degli anni ’80 e la privatizzazione dei Riva, infatti, gli operai passano da 21mila a 12mila, e la popolazione cittadina – non è un caso – scivola sotto la soglia dei 200mila abitanti, anche a causa delle migrazioni degli studenti. Ciò che resta è il lascito di decenni di politiche incentrate sullo stabilimento Ilva anche nella conformazione urbana della Taranto odierna: una città-periferia, che vende le case della città vecchia a un euro sperando di ripopolare il centro.
Il disastro ambientale e la crisi lavorativa
Gli anni della gestione Riva sono soprattutto quelli del disastro ambientale, quando il tappo salta ed emergono nitide le distorsioni già presenti alla costruzione dello stabilimento. I timori per il territorio esistono dal 1965, quando, dopo un’ordinanza contro l’inquinamento emessa dall’allora ufficiale sanitario Alessandro Leccese, lo stesso Leccese dirà che per l’allora presidente dell’area di sviluppo industriale ”non conta la tutela della città da un grave danno ecologico’’. Con Riva, però, i cortocircuiti già esistenti – su tutti l’edificazione del polo con l’area a caldo, più inquinante, anziché quella a freddo a ridosso della città – si aggravano, determinando lo scoppio del problema inquinamento.
A cambiare sono anzitutto le relazioni interne al centro: prepensionamento per 11mila operai e ingresso di giovani con contratto di formazione lavoro, non sindacalizzati e legati alla fabbrica che offre occupazione. Con il ridimensionamento dei sindacati presto sfuggono i controlli all’interno e, a maggior ragione, all’esterno dello stabilimento. I dipendenti scomodi, anche chi lamenta l’inquinamento, sono confinati nella Palazzina Laf, caso di mobbing per cui Riva è condannato in Cassazione. Fuori, intanto, proseguono le emissioni. Lo studio Sentieri del 2003-2009 contesta un aumento dei tumori infantili del 54% rispetto alla media regionale, della mortalità infantile pari all’11% e l’eccesso di tumori femminili e maschili del 20% e del 30% rispetto al dato provinciale. I periti nel 2012 – in riferimento al periodo 2004-2010 – attestano inoltre aumenti drastici delle malattie legate alla fabbrica negli operai: 107% di tumore dello stomaco, 71% della pleura, 50% della prostata, 69% della vescica, e 11.550 morti tra chi viveva nei pressi della fabbrica. È sulla base di questi dati che la gip Patrizia Todisco dispone nel 2012 l’arresto dei Riva e i sigilli allo stabilimento, affermando che “chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”.
Dove nasce l’opposizione alla chiusura
Capire Taranto significa immergersi negli attimi successivi al provvedimento di sequestro, quando gli operai abbandonano la fabbrica e occupano le strade contro la chiusura, che significherebbe perdere il posto di lavoro. Il fallimento del referendum per mettere i sigilli al centro è il passo successivo: il quorum nel 2013 non è raggiunto, votano solo il 19,5% dei tarantini. Nel quartiere Tamburi le percentuali sono ancora più basse. Qualche anno dopo le parole di Mimmo Reale, operaio in sciopero davanti all’Ex-Ilva il giorno dell’arrivo ai cancelli di Giuseppe Conte, nel 2019, focalizzano bene la questione: “Ogni mattina – dice -vengo a lavorare con la coscienza sporca, non ce la faccio più a sostenere questa situazione nella mia mente. Questa terra non offre nient’altro, non ha mai offerto nient’altro. Dovete prendere in considerazione l’amarezza di questa città”. Ecco la chiusura del cerchio: lo stabilimento nato per sopperire alla disoccupazione oggi inquina ma non chiude per evitare che 8200 impiegati – senza contare i migliaia dell’indotto – finiscano nel vortice di una nuova crisi sociale.
Il governo Draghi e la partita Ilva
Non è un caso, dunque, se il dossier di Taranto – dopo anni di decreti salva Ilva – sia rimbalzato sinora, passando dal commissariamento alla cessione ad Arcerol Mittal e approdando prima d’ogni altro anche sul tavolo di Mario Draghi, che eredita dal governo Conte l’ingresso dell’agenzia statale Invitalia al fianco della cordata franco-indiana. La partita sullo sfondo delle ciminiere è quella di una riconversione degli stabilimenti dell’ex Ilva, che il governo ha promesso di trasformare nel più grande impianto green d’Europa. Dalla sua realizzazione dipende il ripensamento dei rapporti tra industria e territorio, ambiente e salute, Stato e cittadini e, nel caso specifico, il superamento della dicotomia salute-lavoro. Per la città di Taranto e per l’economia del futuro.
*Immagine di copertina: Foto di Adina Voicu da Pixabay