I rapporti con la Nato
Lo scorso luglio il Pentagono ha annunciato l’approvazione del piano che prevede di ritirare 9.500 soldati americani di stanza in Germania. 6.400 soldati torneranno negli Stati Uniti, 5.600 verranno schierati in altri paesi Nato, tra cui Belgio, Italia e Polonia. Il ritiro porterà il numero dei soldati americani in Germania da 34.500 a 24.000.
Ancor più chiaro segnale politico è il trasferimento del quartier generale delle truppe statunitensi in Europa da Stoccarda a Mons, in Belgio. Trump aveva dichiarato che i costi sopportati dagli Stati Uniti per la sicurezza militare comune in ambito Nato sono troppo alti, mentre gli alleati, e nello specifico la Germania, non spendono abbastanza. L’alleanza stretta in Galles nel 2014 prevede che gli alleati si impegnino a raggiungere un obiettivo di spesa pari al 2% del Pil entro il 2024. Obiettivo per ora raggiunto soltanto da alcuni Stati dell’Europa orientale. Lo Us Africa Command, con raggio di azione in 30 Stati, potrebbe invece essere trasferito a Napoli o in Spagna.
Si tratterebbe di una sorta di ritorsione nei confronti della Germania per aver deciso di spendere parte del suo budget per la difesa in armamenti europei, invece che negli Usa.
Le tensioni tra Usa ed Europa non finiscono qui. La Casa Bianca ha elevato i dazi su acciaio e alluminio, imponendo rigide regole commerciali alle nazioni europee.
Le possibili tensioni con Polonia e Russia
Biden è, dunque, intervenuto con la promessa di “intraprendere misure immediate per rinnovare la democrazia e le alleanze degli Stati Uniti”, col fine di ricostruire la fiducia tra gli Stati Uniti e gli alleati europei. Tuttavia, potrebbe rischiare di inimicarsi la Polonia. Nel caso in cui venisse eletto intende rivedere il piano di spostamento delle truppe, mentre la Polonia si è prontamente impegnata a costruire nuove basi militari sul suo territorio per accoglierle. Potrebbe trattarsi di una mossa strategica nei confronti della Russia, la cui politica, come si legge nella National Security Strategy della Polonia, è “volta a minare l’attuale ordine internazionale”.
Intanto Trump, per rafforzare la presenza militare americana in Polonia, ha annunciato di star considerando la possibilità di imporre sanzioni per bloccare la costruzione del nuovo gasdotto russo-tedesco, il Nord Stream 2. Si tratta di un altro monito alla Germania, energeticamente dipendente dalla Russia.
Le conflittualità con la Cina
La National defense strategy rilasciata dal Pentagono nel 2018 ha indicato come competitor Russia e Cina. Nel documento, come precisato da Colby, vice assistente per la Difesa degli Stati Uniti, si legge che gli USA intendono contrastare “l’erosione del vantaggio militare statunitense rispetto a Cina e Russia”.
Mosca, Pechino, Teheran e Pyongyang sono individuate come le principali minacce per la sicurezza e gli interessi degli Stati Uniti. Salvo le sanzioni all’Iran e alla Russia, però, l’attenzione di Trump si è concentrata sulla Cina. L’amministrazione Trump ha inasprito la tensione che si manifestava tramite il “pivot to Asia”, elaborato da Hillary Clinton nel 2011 e di fatto abbandonato dall’amministrazione Obama. Trump sta orientando la maggior parte degli investimenti americani verso l’area indo-pacifica, proprio come previsto dalla politica di Clinton.
La posizione di Biden non è significativamente diversa da quella di Trump: ha rifiutato di dichiarare che revocherà i dazi imposti da Trump sulle importazioni cinesi. Potrebbe anzi lasciarli in vigore per mettere pressione su Pechino. Anche Biden ha definito la Cina come un competitor, che dovrà essere arginato con misure che riducano l’influenza cinese nei settori della tecnologia e dell’intelligenza artificiale.
La retorica dei due candidati è simile. Trump ha definito il Covid-19 “virus cinese” e Biden ha definito il presidente cinese Xi Jinping un “delinquente”. Biden ha promesso, poi, “rapide sanzioni economiche” contro la Cina nel caso in cui cerchi di influenzare le aziende o i cittadini americani. Si è detto invece disposto a collaborare con Pechino su questioni come la sicurezza sanitaria globale e il cambiamento climatico, su cui gli interessi dei due paesi coincidono.
Gli accordi di Abramo e la questione mediorientale
Gli Accordi di Abramo sono stati celebrati dalla Casa Bianca come un “importante passo verso un futuro in cui individui di ogni fede e cultura potranno vivere insieme, in pace e prosperità”. A poche settimane dalle elezioni, grazie alla firma dell’accordo che suggella la pace tra Israele e due paesi del Golfo Persico, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Bahrain, Donald Trump ha portato a casa il più grande successo della sua presidenza in politica estera.
Gli Accordi di Abramo rappresentano il riassunto di quella che è stata la politica estera americana nella regione mediorientale dal 2016 ad oggi. Trump, dopo aver stralciato l’accordo sul nucleare iraniano difficilmente ottenuto da Barack Obama nel 2015, ha investito pesantemente sull’allineamento degli alleati storici nella regione, ovvero gli israeliani e i sunniti del Golfo. La firma degli accordi è storica, dal momento in cui, per la prima volta, viene riconosciuta ufficialmente l’alleanza segreta tra Israele e i paesi arabi del Golfo. Tuttavia, nello scenario mediorientale di oggi, questo accordo non rappresenta una svolta verso un futuro di stabilità o pace per la regione mediorientale. Per Trump e la Casa Bianca, il documento è piuttosto un punto di partenza o una pesante eredità.
Nel caso in cui l’amministrazione Trump ottenesse un secondo mandato, l’accordo con Bahrain e EAU sarebbe la base iniziale su cui lavorare per arrivare alla creazione della “NATO araba”, ovvero un accordo di cooperazione militare tra Israele e i paesi sunniti della regione. La scelta dei firmatari degli Accordi di Abramo non è stata affatto casuale: da anni gli Emirati Arabi si sono fatti portatori della politica americana nella regione, restando fidi alleati dei vicini sauditi sia in Yemen che in Libia. Il Bahrein, invece, nonostante la sua apparente insignificanza strategica e politica, è uno stato a maggioranza sciita dominato da una monarchia sunnita satellite di Riad, simbolo dunque dello scisma insanabile tra sauditi e iraniani per il controllo dell’egemonia regionale.
Contatti che portino al riconoscimento dello Stato ebraico sono stati avviati ad esempio con Sudan, Marocco e Oman, ma l’obiettivo finale è portare alla firma del mutuo riconoscimento l’Arabia Saudita, pilastro della politica regionale americana insieme a Gerusalemme. Nel momento in cui si dovesse venire a firmare un’intesa che includa anche Riad, la politica di disengagement americana dalla regione potrebbe davvero prendere inizio, dal momento che Israele sarebbe ormai al centro di un’alleanza politica, militare e tecnologia che potrebbe rassicurare sia Washington che gli israeliani.
Nel caso in cui invece fossero i democratici a imporsi nelle elezioni del 4 novembre, gli Accordi di Abramo sarebbero un’eredità pesantissima che condizionerebbe sin dal primo momento le scelte dell’amministrazione Biden. All’epoca della Presidenza Obama, Biden ha avuto un ruolo fondamentale nella firma del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), ovvero l’accordo sul nucleare iraniano. La scelta di reintegrare Teheran all’interno della comunità internazionale venne però fortemente osteggiata, sia da Israele che dai sauditi, divenuti poi non a caso forti sponsor delle politiche trumpiane nella regione. La firma degli Accordi di Abramo punta infatti all’isolamento dell’Iran e alla futura capitolazione del regime degli Ayatollah.
Biden dovrà dunque decidere sin dal giorno uno se procedere sulla via del consolidamento dell’asse israelo-saudita, con l’inclusione dei vari Paesi a guida sunnita della regione, in quella che sarebbe un’alleanza tout-court anti iraniana, oppure ricalcare i passi del suo ex Presidente, puntando su una effettiva reintroduzione di Teheran all’interno della regione. Questa seconda possibilità potrebbe avere però effetti tuttavia imprevedibili per gli interessi economici e militari degli americani. Israele e Arabia Sauditi si vedrebbero infatti traditi per la seconda volta da un’amministrazione democratica.
Questo articolo è parte di una raccolta sulle elezioni presidenziali americane 2020. Articolo precedente: “Polarizzato e disinteressato: come si presenta l’elettorato americano“.