Con la presidenza di Donald Trump il dibattito sull’opportunità di definire nuove architetture di sicurezza e di cooperazione di difesa regionale tra i paesi mediorientali è entrato in una nuova fase di discussione.
Il Mesa dovrebbe favorire una più profonda cooperazione tra i Paesi della regione in materia di difesa missilistica, addestramento militare e anti-terrorismo, rafforzando la sicurezza lungo le tratte commerciali strategiche dei Paesi del Golfo (l’area tra il Canale di Suez, il Mar Rosso e il Golfo di Aden attraverso le quali passa la maggioranza dei rifornimenti di petrolio del mondo), nonché favorire un maggiore rafforzamento dei legami economici e diplomatici regionali.
Gli Stati Uniti possiedono forti legami bilaterali con diversi Paesi del Medio Oriente, tra cui Egitto, Iraq, Israele, Giordania e i sei membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc). L’instabilità creatasi a partire dalle cosiddette “Primavere arabe” del 2011, ha favorito la richiesta di maggiore cooperazione nell’ambito securitario, con l’obiettivo di assicurare stabilità nella regione.
Il Mesa costituisce dunque, in ordine temporale, l’ultimo esperimento in materia di alleanze regionali e dovrebbe vedere la luce entro la fine del 2020.
Nascita e ambizioni del Middle East Strategic Alliance
Il modello di riferimento del Mesa è l’Istanbul Cooperation Initiative (Ici), un’iniziativa lanciata durante il vertice Nato di Istanbul del 2004 che coinvolge i membri Nato e alcuni stati del Golfo, una partnership multilaterale che le organizzazioni occidentali hanno stabilito con diversi gruppi di Paesi del Medio Oriente dopo la fine della Guerra Fredda.
L’idea centrale è quella di coinvolgere gli stati mediorientali offrendo loro non una collaborazione passiva bensì un rapporto paritario, basato su un dialogo politico volto alla creazione di un nuovo modello di governance della sicurezza regionale.
La proposta di una partnership multilaterale impostata sulla cooperazione regionale di sicurezza in ambito mediorientale è emersa durante la visita del presidente Trump in Arabia Saudita nel maggio 2017. L’alleanza comprenderebbe l’adesione di tutti i sei Paesi del Gcc, insieme a Egitto, Giordania e Israele.
Sebbene la questione di sicurezza dell’area costituisca il punto focale dell’alleanza, ad oggi i vari attori coinvolti si sono dimostrati favorevoli ad includere anche accordi di cooperazione in ambito economico e politico.
Le reazioni dei partecipanti alla proposta
Nel 2017 l’Arabia Saudita, così come gli altri Paesi arabi del Golfo, erano concentrati sulla ricostruzione di relazioni bilaterali con la nuova amministrazione americana dopo un periodo di tese relazioni durante la presidenza Obama, verificatesi in seguito alla stipula dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015. L’evento aveva infatti contribuito a creare un clima di forte sfiducia tra Washington e i partners del Golfo, storicamente opposti all’Iran.
Tuttavia, l’amministrazione Trump condivide da sempre le preoccupazioni del Gcc riguardo le ambizioni egemoniche regionali di Teheran (percepito come un attore aggressivo e destabilizzante per l’equilibrio dell’intera area) e ha quindi abbracciato con benevolenza il progetto di un’organizzazione multilaterale di sicurezza, anche per rafforzare la cooperazione strategica contro l’ISIS e altre potenziali minacce di matrice religiosa.Inoltre, la rottura nel 2017 delle relazioni tra il Qatar e il Quartetto arabo (costituito da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto), rappresenta l’ultimo atto di una crisi in corso da tempo nell’area.
Il nodo della discordia è costituito dalla politica estera qatariota, percepita dagli altri Paesi del Gcc come indipendente e concorrenziale rispetto ai loro interessi. Rimasto per decenni sotto l’ombrello saudita con lo scopo di garantirsi sicurezza e stabilità, infatti, il Qatar ha delineato solamente nel 1995 un nuovo obiettivo strategico: uscire dalla condizione di marginalizzazione imposta da Riyad per ottenere un ruolo di primo piano nello scacchiere mediorientale.
In questo contesto, il Mesa punta ad ottenere una maggiore interoperabilità – ossia l’interscambio e l’interazione dei sistemi di difesa degli Stati membri – attraverso la creazione di “centri organizzativi regionali” che coprano “i domini marittimi, informatici, aerei e missilistici”.
Secondo quest’ultima strategia, l’interoperabilità tra i vari alleati implicherebbe anche la condivisione di informazioni e attrezzature. Il Mesa consentirebbe dunque ai diversi Paesi di fare affidamento l’uno sull’altro per colmare le lacune in materia di difesa nazionale.
L’interoperabilità imporrebbe inoltre dei limiti ai crescenti acquisti di armi della regione dai paesi europei e, soprattutto, dalla Russia e dalla Cina. Questo problema è diventato negli ultimi anni estremamente importante per Washington. La proposta di cooperazione tra stati arabi arriva infatti in un momento in cui la presenza militare e politica di Mosca in Medio Oriente punta all’inclusione dei tradizionali alleati di Washington. Di fatto, la potenziale espansione russo-cinese minaccia l’accesso e il dominio dello spazio aereo controllato dagli Stati Uniti nella regione.
Le principali difficoltà nel processo di costituzione della “Nato araba”
La generale e storica mancanza di fiducia politica ma anche militare ed economica tra gli stati del Golfo, costituisce uno dei principali impedimenti nella costituzione dell’Alleanza.
Ciò riflette sia la natura del Mesa, definita intergovernativa e quindi non comunitaria, come viene invece definita la politica dell’Unione europea. Inoltre, è evidente il desiderio dei potenziali membri di porre gli interessi nazionali al di sopra di quelli dell’organizzazione.
Questo aspetto rappresenta un nodo di importanza cruciale, dato che gli Stati Uniti vogliono gradualmente disimpegnarsi militarmente e diplomaticamente dal Medio Oriente, delegando il proprio ruolo centrale alle potenze regionali su cui possono fare affidamento.
In seguito all’attuazione del National Security Strategy del 2017, Washington ha infatti deciso di ritirare numerosi contingenti dalla regione e di ridistribuirli verso altri teatri più vicini con l’intenzione di controbilanciare le influenze di Pechino e Mosca.
Lo scopo principale di un patto di sicurezza arabo consentirebbe quindi agli Stati Uniti di ridurre la propria presenza ad alta intensità di risorse militari nella regione mantenendo però controllo sulle operazioni locali. In tale contesto, gli sforzi per costruire una “Nato araba” possono essere visti come un esercizio di disimpegno.
Tuttavia, il Mesa non ha ancora affrontato la questione di chi dovrebbe avere il comando e il controllo dell’organizzazione stessa: questa carenza è la motivazione principale per cui tutti i tentativi regionali di difesa collettiva sono risultati finora inefficaci.
Oltretutto, diversi Paesi arabi impediscono alle proprie istituzioni di sicurezza nazionale di lavorare congiuntamente per ridurre le possibilità di un colpo di stato.
I membri arabi del Mesa attualmente non si fidano abbastanza l’uno dell’altro per la condivisione delle informazioni che renderebbero le loro difese marittime, informatiche, aeree e missilistiche maggiormente interoperabili di quanto non siano già.
Vi è poi una mancanza di accordo su quali siano le principale minacce per la regione. Di fatto, alcuni membri non concordano sul fatto che l’Iran costituisca un pericolo imminente. Per questo motivo Kuwait e Oman non hanno mostrato un reale supporto al Mesa. A parte l’Arabia Saudita, il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti, nessun altro paese coinvolto sostiene azioni militari contro l’Iran.
Fino ad oggi, il Mesa è stato fortemente voluto solamente da Washington e da Riyad con il risultato di venire percepito dai partner più “scettici” come un tentativo di trasformare i paesi aderenti in strumenti economici, politici e militari, piuttosto che “alleati” nella strategia americana contro l’Iran.
In tale contesto, il Qatar porta avanti le sue relazioni con Teheran, mentre l’Oman continua con la sua politica di equidistante neutralità. Il Libano e l’Iraq contano una cospicua componente sciita all’interno della popolazione, così come il Kuwait. Il delicato equilibrio etnico porta quindi questi Paesi ad avere come principale obiettivo la stabilità nel vicino contesto iracheno.
La Giordania invece non considera una priorità il contenimento dell’Iran, mentre dimostra preoccupazione per la presenza di Israele all’interno dell’organizzazione, che ancora oggi viene pubblicizzato come un membro non ufficiale. La presenza israeliana destabilizza i giordani sia in termini di sicurezza nazionale e per i risvolti della crisi dei rifugiati siriani, sia per gli sviluppi troppo favorevoli ad Israele nel cosiddetto “Accordo del secolo” fortemente voluto dagli Usa.
Conseguentemente, almeno non ufficialmente, solo Egitto e Giordania non si oppongono alla politica degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita concernente il Mesa, interessati dagli aiuti economici e politici che l’accordo comporterebbe.
La formazione dell’alleanza è inoltre resa difficoltosa dalle posizioni di alcuni singoli attori fondamentali nello scacchiere mediorientale, come per esempio la Turchia, che non è stata coinvolta nell’iniziativa. Ankara percepisce il Mesa come una minaccia alla propria strategia mediorientale e in particolare al ruolo turco di contrasto alle forze curde in Siria.
L’alleanza comporterebbe anche numerosi problemi da un punto di vista di sovranità e autodifesa. L’articolo 5 della Carta Atlantica afferma infatti come un qualunque attacco contro uno o più dei Paesi firmatari debba essere considerato come un attacco contro tutti. Se questo strumento di deterrenza dovesse essere replicato nel Mesa potrebbe non essere accettato dai Paesi membri, viste le difficoltà nell’indicare a chi spetterebbe la decisione finale di una scelta operativa.
È quindi comprensibile come molti osservatori abbiano respinto l’idea definendola come non realizzabile e messo in dubbio che tale accordo possa raggiungere una funzionale e significativa operatività. Di fatto, numerosi studiosi concordano nell’affermare che l’ulteriore militarizzazione delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita non porterà quasi sicuramente stabilità e sicurezza al Medio Oriente.
Tutti i membri hanno quindi aspettative diverse per l’alleanza. Gli stati arabi vedono il Mesa principalmente come un’alleanza militare e hanno risposto positivamente al progetto. I Paesi “scettici” considerano l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti più inclini ad affrontare le minacce regionali facendo ricorso al settore militare, rischiando escalations che potrebbero coinvolgere altri membri del patto.
È inoltre improbabile che i membri di questa unione siano in grado di replicare le capacità di risposta e la rapidità operativa degli Usa in caso di situazioni critiche come il sorgere di un altro focolaio Isis o di raggruppare e integrare in modo efficiente le forze di terra per contrastare un potenziale inasprimento della rete di alleanze iraniane.
Gli ostacoli persistenti riguardo i repentini cambi di alleanze e la mancanza di fiducia all’interno del blocco arabo, per ragioni politiche ed economiche, continuano ad opporsi alla realizzazione del progetto. La gestione emergenziale della pandemia da Covid-19, inoltre, fa anche presumere come questa alleanza potrebbe essere relegata temporaneamente in fondo all’agenda dei Paesi coinvolti.