Uno scontro culturale
Mai come in queste Midterm gli Stati Uniti erano stati così polarizzati politicamente. Invece di uno scontro sui successi e gli insuccessi dell’Amministrazione in carica, queste elezioni sono diventate il teatro di una profonda culture war (battaglia culturale) tra democratici e repubblicani. Solitamente le elezioni di Midterm vengono sfruttate dal partito all’opposizione per ostacolare il lavoro della Presidenza in carica riconquistando o, nel caso in cui la si abbia già, rafforzando la maggioranza in una o in entrambe le Camere del Congresso. Tradizione vuole che il focus principale sia la narrazione sui propri punti di forza e la trasformazione delle elezioni in un referendum sul Presidente, soprattutto se debole (come accade quasi sempre nella storia delle midterm successive al suo insediamento). I repubblicani sembrano aver puntato invece molto sulla dialettica della culture war, su fronti come la lotta di genere, il diritto all’aborto, l’educazione pubblica, il diritto di voto e le tematiche Lgbtqia+. Questo spostamento strategico è dovuto soprattutto a due fattori: le richieste sempre più incalzanti dell’elettorato cristiano, ed il trumpismo dovuto al controllo dell’ex Presidente sul partito repubblicano e della pervasività della dottrina Maga (make america great again). Pur essendo un approccio rischioso, alla luce di una popolazione statunitense sempre più progressista sui temi sociali, è una strategia che sta pagando, vincendo negli stati più conservatori (che contano più dei voti totali).
Il peso dell’economia
Dai sondaggi risulta come la più grande preoccupazione degli statunitensi in questa fase storica sia ll’economia. Dagli elettori delle zone rurali, passando per la middle class suburbana, fino alle zone residenziali delle metropoli come New York, la maggioranza degli americani sente il peso dell’inflazione gravare sul proprio potere d’acquisto. Tradizionalmente, gli elettori hanno quasi sempre posto maggior fiducia nei repubblicani per quanto riguarda le materie economiche, accreditando i democratici come i rappresentanti delle questioni sociali. In un precedente articolo si era parlato del Build Back Better di Biden e delle difficoltà incontrate nell’approvazione in Congresso, unite alla generale sfiducia dei cittadini nella capacità del piano di combattere l’inflazione rendendo l’economia più produttiva. A tutto questo si unisce un quadrimestre di inaspettata diminuzione della crescita economica negli Stati Uniti, dopo un 2021 con cifre da record (che aveva beneficiato anche dell’effetto rimbalzo dopo l’iniziale crollo dovuto alla pandemia). Due quadrimestri di caduta della crescita sono etichettati come recessione e, nonostante Biden abbia ricordato le difficoltà dovute alla pandemia ancora in corso e alle turbolenze geopolitiche della guerra in Ucraina, il terreno per i democratici è diventato molto insidioso.
I democratici non sembrano avere i mezzi in questo momento per controbattere, in un momento di conflitto interno tra centristi e progressisti. Basti a pensare alla questione dello scontro con Joe Manchin e Kyrsten Sinema sull’approvazione del Build Back Better e sulla legge contro la soppressione del voto (John Lewis Voting Rights Act), o sulla spaccatura relativa alla cancellazione del debito studentesco. Una situazione aggravata dalla discesa in campo sempre più netta degli Stati Uniti nel conflitto con l’Ucraina, nella quale gli esiti e le conseguenze sono imprevisti. I repubblicani si sono organizzati per un’offensiva culturale capillare in tutto il Paese, nel tentativo di ribaltare delle conquiste sociali ottenute dai progressisti negli ultimi decenni. È emblematico a tal proposito il caso della pronuncia della Corte Suprema sulla sentenza Roe vs Wade, che nel 1973 aveva reso l’aborto un diritto federale e impedì agli Stati singoli di vietarlo. Una sentenza che rischia di essere ribaltata a giugno, e che alimenterebbe ulteriormente la forte polarizzazione del Paese.
Scendendo sul campo dei sondaggi e delle previsioni, la situazione sembra decisamente svantaggiosa per i dem. Nei sondaggi delle intenzioni di voto generali, i repubblicani guidano con circa 2-3 punti percentuali. Alla camera dei rappresentanti, le analisi danno i repubblicani in nettissimo vantaggio, complice un uso più distribuito del gerrymandering (la pratica di disegnare i distretti elettorali in modo da aumentare le probabilità di vittoria). Al senato invece, la maggioranza sembrerebbe più combattuta: dei 34 stati che andranno al voto, in almeno 7 gli incumbents non si ricandideranno (3 dem e 4 rep). La tradizione suggerisce che gli incumbents abbiano generalmente altissime probabilità di essere rieletti, ma questa proprietà non sempre viene estesa al partito di riferimento. L’attuale distribuzione del senato garantisce ai dem una maggioranza estremamente risicata: i 100 seggi sono divisi a metà tra le due fazioni (la maggioranza resta però tale in virtù del voto tie-breaking del vicepresidente). Questo significa che ai repubblicani basterebbe ribaltare anche uno solo dei 4 seggi sopracitati per vincere il senato.
Una democrazia ferita
Mentre il paese piange i morti dell’ultima strage in una scuola invocando una maggior regolamentazione delle armi da fuoco, e i lavori della commissione che indaga sull’assalto del campidoglio del 6 Gennaio 2021 proseguono tra le controversie, il tempo per la campagna elettorale sta per finire. La maggioranza ha poco margine per salvare il salvabile difendendo la propria posizione in senato, o provando a ridurre la portata della sconfitta nella camera bassa. Qualunque sia il risultato delle elezioni di midterm, è lecito riflettere su quale sia il futuro non solo del paese a stelle e strisce, ma delle nostre democrazie liberali: la spaccatura tra gli elettorati del nostro secolo può mettere a rischio la stabilità della nostra politica? È necessario forse costruire nuovi ponti? Per una prima, possibile risposta, dovremo aspettare che si aprano le urne.
A cura di Massimiliano Garavalli e Lorenzo Taraborrelli