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Il Libano in bilico fra lo spettro di nuove proteste e crisi economica

Tempo di lettura stimato: 5 min.

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Lo scorso 14 ottobre in Libano, centinaia di manifestanti esponenti del gruppo militante sciita filo-iraniano Hezbollah e del suo alleato, il movimento sciita Amal, si sono radunati nei pressi della rotonda Tayouneh, tra il quartiere sciita di Dahieh e quello cristiano di ’Ain Remmeneh a sud della capitale Beirut, per protestare contro le indagini sull’esplosione che, il 4 agosto 2020, ha colpito il porto della città.

Le vicende di ottobre hanno costituito l’ultimo segnale di una situazione apparentemente fuori controllo, non solo da un punto di vista politico, ma anche per cause sociali ed economiche

Alle origini degli scontri

I manifestanti sono scesi in strada per chiedere l’estromissione di Tarek Bitar, il giudice che sta indagando sull’esplosione del porto di Beirut, evento che ha comportato la morte di 214 persone e il ferimento di altre 7000. 

L’esplosione principale è stata collegata a 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio che erano state confiscate nel 2014 da parte del governo libanese dalla nave abbandonata M/N Rhosusm, di proprietà russa, e depositate nel porto senza misure di sicurezza fino al giorno dell’esplosione. Dall’apertura delle indagini, sia Hezbollah che Amal hanno sostenuto che Bitar abbia “politicizzato” l’inchiesta sull’esplosione e ne hanno chiesto l’estromissione. 

In merito degli scontri, i due movimenti sciiti hanno accusato il partito cristiano delle Forze libanesi (LF), formazione cristiana nazionalista notoriamente ostile ai due movimenti sciiti, di aver sparato volontariamente sui manifestanti e innescato lo scontro a fuoco con i miliziani presenti

Gli eventi possono essere sembrati eventi improvvisati, ma le tensioni si sono susseguite per mesi da quando i partiti dell’establishment – Hezbollah in primis – hanno iniziato a diventare sempre più espliciti nel voler chiedere l’estromissione di Bitar dalle indagini. Di fatto, le minacce e le tattiche di intimidazione si sono moltiplicate nella fase precedente agli eventi di Tayouneh, tra l’altro fortemente sostenute dallo stesso Segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah. 

Negli ultimi mesi, Bitar ha messo sotto accusa numerosi alti politici e funzionari, compresi membri del governo e diverse alte cariche dell’Esercito. Nei giorni precedenti agli scontri, Bitar aveva emesso un mandato d’arresto nei confronti dell’ex Ministro della Salute e delle Finanze – nonché membro di Amal – Ali Hassan Khalil, dopo che quest’ultimo si era rifiutato di farsi interrogare. Come Khalil, molti dei politici coinvolti hanno rifiutato di recarsi in tribunale. L’indagine è stata bloccata più volte con vari espedienti legali, compreso un appello alla Corte Suprema del Paese.

Gli eventi verificatisi a Tayouneh hanno portato in superficie importanti considerazioni e contrasti nella politica e nella società libanese. Indipendentemente dal fatto che siano stati effettivamente coinvolti negli scontri, le Forze Libanesi appaiono alla popolazione libanese disillusa – cristiani in particolare – come l’ultima “linea di difesa” contro l’influenza di Hezbollah nel Paese

Gli scontri di Tayouneh hanno ulteriormente fatto emergere il profondo malcontento tra le comunità non sciite per le manifeste tattiche intimidatorie di Hezbollah. Contestualmente, numerose critiche sono state indirizzate anche all’operato delle Forze di sicurezza libanesi, che lo scorso ottobre si sono limitate a “contenere” la situazione senza intervenire formalmente. 

In Libano questo evento non costituiste tuttavia una novità. Di fatto, le Forze armate hanno molestato, picchiato e ferito gravemente manifestanti disarmati durante l’ondata di manifestazioni di strada che la società civile libanese e i gruppi di opposizione hanno condotto a partire dall’ottobre del 2019. Come è successo nell’ottobre del 2019, non appena le milizie armate sono scese in strada, l’intero apparato di sicurezza si “è disimpegnato”. D’altronde, lo stesso Esercito è spesso bloccato a navigare tra le sottili linee settarie che la leadership politica gli ha de facto imposto.

Le sfide del nuovo esecutivo di Miqati 

Le manifestazioni del 14 ottobre hanno costituito anche il primo vero stress test per il governo Miqati, instauratosi dopo più di un anno di stallo politico. Di fatto, il 10 settembre il Premier incaricato Najib Miqati ha annunciato dal Palazzo Presidenziale libanese di aver ottenuto l’approvazione del Presidente della Repubblica, Michel Aoun, per formare il tanto atteso nuovo esecutivo.

Miqati non è un volto nuovo nel panorama politico libanese: è stato già Premier dal 2004 al 2005 e dal 2011 al 2014. Negli ultimi due anni è stato accusato di atti di corruzione e clientelismo ed è uno dei leader politici libanesi più fortemente contestati dal movimento di protesta del 2019

In prima istanza, il nuovo esecutivo aveva promesso azioni efficaci per uscire dalla crisi economica paralizzante attraverso riforme mirate e un’apertura al dialogo con il Fondo Monetario Internazionale. Di fatto dal 2019, la lira libanese, che la Banca Centrale mantiene al cambio ufficiale di 1.500 per dollaro USA (entrambe le valute sono utilizzate in Libano), ha perso oltre il 90% del suo valore di mercato, superando i 20.000 per dollaro in luglio. Il Pil pro-capite è crollato di oltre il 20% nel 2020. 

Le conseguenze di questo tragico scenario per la popolazione sono pesantissime: metà vive sotto la soglia di povertà e tutta è gravata da razionamento dell’elettricità, difficoltà a trovare carburante, prezzi degli alimenti e dei beni di prima necessità alle stelle. Secondo la Banca Mondiale, quella libanese è la crisi economica peggiore degli ultimi 150 anni.  

Il Libano di fronte alle prossime elezioni parlamentari

Lo scorso 27 settembre, il Premier Miqati ha confermato che le elezioni legislative avranno luogo il prossimo 27 marzo, anticipandole rispetto a giugno 2022. Secondo numerosi analisti, la volontà del governo è quella di usufruire dell’attuale legge elettorale del 2017 che di fatto non contempla l’elezione di deputati appartenenti alla diaspora libanese. In teoria la legge prevederebbe genericamente 6 deputati eletti fra i libanesi all’estero, ma ancora non sono mai stati disposti i relativi decreti attuativi. 

Di fatto, uno dei principali temi sensibili è il diritto di voto dei libanesi all’estero, moltissimi dei quali solidali con la mobilitazione popolare dell’autunno del 2019. Data quindi la “grandezza” della diaspora libanese all’estero, questa potrebbe costituire una seria minaccia per l’immobile establishment al potere. 

L’opposizione vede le imminenti elezioni legislative come un nuovo possibile terreno di scontro contro il sistema. D’altronde, la tensione è alta e la profonda crisi economica e sociale che ha piegato il Paese dei Cedri rende al momento possibile ogni scenario. 

*Proteste in Libano [crediti foto: Khamenei.ir, CC BY-SA 4.0]
Anthea Favoriti
Nata nelle Marche, cresciuta in Toscana, adottata da Roma. Ho studiato Lingue Orientali (arabo e persiano) presso l’Università Sapienza di Roma e MENA Politics poi presso l’Università degli Studi di Torino. Amante dei viaggi in solitaria e dei soggiorni all’estero, passo il tempo libero a organizzare possibili itinerari e a collezionare mappe.

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