Il Covid-19, lo smart working e gli infortuni sul lavoro
La recente pandemia da Coronavirus ha monopolizzato i titoli d’apertura di giornali e telegiornali negli ultimi mesi, stravolgendo pressochè tutti gli aspetti della vita di ogni comunità. Ma i principali mutamenti hanno riguardato il mondo del lavoro. Il Covid-19 ha richiesto adeguamenti organizzativi e sacrifici economici, ma anche posto grandi interrogativi nell’ambito degli infortuni sul lavoro.
Un’indagine sullo smart working promossa dalla Cgil e dalla Fondazione Di Vittorio, ha rilevato che, prima della pandemia, erano solamente 500mila gli utenti che lavoravano da remoto. Dall’inizio del lockdown, si stima che siano stati circa 8 milioni gli italiani che hanno iniziato a lavorare da casa o comunque da remoto.
Nonostante il parziale successo della conversione in smart working, sono più di 28mila i contagi sul lavoro da nuovo Coronavirus denunciati all’Inail tra la fine di febbraio e lo scorso 21 aprile. Il 45,7% riguarda la categoria dei “tecnici della salute”, che comprende infermieri e fisioterapisti. A questi fanno seguito gli operatori socio-sanitari (18,9%), i medici (14,2%), gli operatori socio-assistenziali (6,2%) e il personale non qualificato nei servizi sanitari e di istruzione (4,6%).
Quale tutela per i lavoratori affetti da Covid-19?
La circolare Inail n. 22 del 20 maggio 2020 ha fornito una serie di chiarimenti in merito alla tutela infortunistica per i casi di Covid-19 contratto sul luogo di lavoro. Da un punto di vista strettamente tecnico-giuridico, l’Inail ha equiparato la causa “violenta” propria degli infortuni sul lavoro alla causa “virulenta” (e cioè al Covid-19). In questo senso si era già espresso l’articolo 42 del decreto “Cura Italia”. In altre parole, l’indennità assicurativa normalmente prevista per i casi di infortunio, è stata estesa anche ai lavoratori che hanno contratto il coronavirus durante lo svolgimento della prestazione lavorativa.
Nell’ambito giuridico, la malattia infortunio consiste in un processo infettivo causato dalla penetrazione nell’organismo umano di agenti patogeni. Viene invece definita violenta una causa che agisce con un’azione rapida, concentrata in un breve lasso di tempo ed esterna all’organismo. In questi casi, al lavoratore viene corrisposta un’indennità economica, sostitutiva della retribuzione. L’indennità per inabilità temporanea assoluta coprirà anche il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria – con la condizione che il contagio sia riconducibile all’attività lavorativa – con la conseguente astensione dal lavoro.
Gli oneri degli eventi infortunistici del contagio sono posti a carico della gestione assicurativa e quindi non comportano maggiori oneri per le imprese. La circolare ha precisato anche i criteri e la metodologia su cui l’Inail si basa per ammettere la copertura assicurativa nei casi di contagio da coronavirus in occasione di lavoro. Per ottenere l’indennità è necessaria una comprovata violazione delle misure di contenimento del rischio di contagio indicate dai provvedimenti governativi e regionali, in assenza della quale sarebbe difficile ipotizzare e dimostrare la colpa del datore di lavoro.
Contrariamente a quanto previsto per la tutela assicurativa, però, la responsabilità civile e penale del datore di lavoro è ipotizzabile solo per i casi violazione della legge o di diversi obblighi di tutela.
Prima dell’infortunio: gli obblighi legali di prevenzione a carico dei datori di lavoro
Al di là della fase emergenziale, di regola, il Testo Unico sulla salute e sicurezza, che ha riformato la materia della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro nel 2008, contiene una serie di norme rilevanti in tema di obblighi di protezione dei datori di lavoro. In forza dell’articolo 18, infatti, essi sono legalmente obbligati a “fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale” e ad “astenersi, salvo eccezione debitamente motivata da esigenze di tutela della salute e sicurezza, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave e immediato”.
Agli obblighi di tutela già presenti, contenuti tanto nella normativa quanto nelle disposizioni dei contratti collettivi, si sono recentemente uniti una serie di vincoli aggiuntivi, frutto della corposa produzione legislativa d’emergenza dell’ultimo periodo. Su tutti, il decreto legge 18/2020, c.d. “Cura Italia”, che come già detto ha equiparato il contagio da coronavirus all’infortunio sul lavoro e il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” firmato lo scorso 24 aprile 2020 dal Governo e dalle parti sociali.
Le fonti fin qui citate risultano specifiche applicazioni del più generale principio di tutela delle condizioni di lavoro dettato dall’art. 2087 del codice civile, che prescrive all’imprenditore l’obbligo di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure […] necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. E non potrebbe essere diversamente: già la Costituzione, all’articolo 41, si preoccupa di coniugare la libertà d’impresa e l’economia di mercato di stampo liberista con i principi dello Stato sociale.
Più nello specifico, il secondo comma stabilisce come l’iniziativa economica privata non possa svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Le categorie più colpite: un focus sul comparto sanità
L’esposizione al contagio varia, evidentemente, da settore a settore. Un recente paper di SSRN ha individuato i reparti maggiormente rischiosi e messo in luce la correlazione tra la probabilità di contrarre il virus e la prossimità fisica tra lavoratori e collaboratori (o, nel caso della sanità, pazienti). In pole position, ovviamente, c’è l’ambiente medico-sanitario.
Il Contratto Collettivo di lavoro del comparto sanità costituisce parte fondamentale dell’insieme di fonti di diritti e obbligazioni esistenti in capo alle parti del rapporto di lavoro. All’art. 58, sancisce l’obbligo di Enti e Aziende di assicurare ai lavoratori assunti interventi informativi e formativi, con riferimento alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Ma l’organizzazione di una reale emergenza concreta, la predisposizione di interventi informativi e di dispositivi di protezione individuale di fronte a un’emergenza improvvisa e ad un agente biologico sconosciuto, sono cose ben diverse dagli astratti obblighi legali.
Si tratta di risposte concrete a problemi concreti ma soprattutto imprevisti, e i numeri lo testimoniano.
Secondo l’infografica dell’ISS dello scorso 10 giugno, infatti, su un totale di 236.076 casi di Covid-19 in Italia, erano 28.603 gli infortuni sul lavoro di soggetti occupati nel settore della sanità.
Di fronte a simili numeri e a una discrepanza nel trattamento dell’infortunio di lavoro da Covid-19 tra il lato della previdenza assicurativa e quello della responsabilità penale del datore di lavoro, sorgono perplessità. Il diritto del lavoro italiano è frutto di anni di stratificazioni legislative, riforme e controriforme. Un settore tanto importante quanto confusionario, che forse meriterebbe un’opera di armonizzazione.
La crisi socio-economica causata dal Coronavirus ha portato in superficie tante e varie criticità dei sistemi sanitari e di produzione del nostro tempo, prima, forse, rimasti taciuti.
In Italia, per qualcuno, un criticità da sanare potrebbe essere la legislazione nel settore del lavoro.
Testo a cura di Caterina Romano e Luigi Tarricone