Tra le forme che assume il conflitto israelo-palestinese figura la contesa per un bene essenziale alla vita umana: l’acqua. Il fenomeno che va in scena nei territori palestinesi occupati prende il nome di water grabbing: situazione nella quale una potenza assume il controllo delle risorse idriche di un determinato territorio sottraendole alle comunità locali, compromettendone le condizioni di vita.
Israeliani e palestinesi condividono due fonti idriche: il fiume Giordano e la falda acquifera montana, sotto il controllo di Israele. Vi è poi la falda acquifera costiera a largo di Gaza. Le differenze nell’accesso all’acqua e nel consumo tra le due popolazioni sono nette: gli israeliani consumano in media 280 litri d’acqua giornalieri a persona nei confini dello stato e 350 negli insediamenti nelle zone occupate, i palestinesi solo 70, ben al di sotto della soglia minima di 100 litri giornalieri fissata dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) a garanzia di una vita salubre.
Alle radici del water grabbing
La questione del controllo delle risorse idriche nei territori palestinesi risale alla nascita dello stato d’Israele. Alla fondazione nel 1948 fu Ben Gurion, primo storico presidente, a dichiarare che la priorità del riunito popolo israeliano era quella di vedere il deserto “fiorire”. A questo scopo la Jewish National Foundation finanziò la costruzione di un canale di deviazione delle acque del Giordano verso il Deserto del Negev (National Water Project), e nel 1964 Israele ultimò la costruzione del National Water Carrier, l’acquedotto nazionale. Entrambe le strutture furono poste sotto la gestione di Mekorot, la ditta nazionale per la gestione delle risorse idriche.
In un contesto di forti tensioni con i paesi arabi limitrofi, la Guerra dei Sei giorni mutò del tutto l’equilibrio dei poteri in gioco. Con l’occupazione della Cisgiordania e la conquista delle alture del Golan, Israele prese il controllo delle fonti idriche in Palestina. Dopo circa trent’anni di ostilità, culminati nel dramma della prima Intifada, il tema dell’acqua fu affrontato nuovamente negli accordi di Oslo del 1993 e 1995. Nel ’93 fu istituita la Palestinian Water Authority, preposta alla gestione delle risorse idriche del futuro stato palestinese. Nel ’95 fu fondata la Joint Water Committee, ente congiunto per la gestione della falda acquifera montana. Fu stabilito che gli israeliani avrebbero mantenuto il controllo delle fonti idriche, e che l’acqua pompata dalla falda montana sarebbe stata suddivisa per l’80% agli israeliani e per il 20% ai palestinesi.
Tale accordo, che doveva avere valenza di soli cinque anni, non vide attuazione concreta. Da allora non ci sono state svolte nella direzione di una spartizione equa. Neanche l’Accordo del Secolo, il documento emanato dall’amministrazione Trump a gennaio del 2020, si propone di trovare una soluzione concreta alla contesa dell’acqua, anzi. Esso riconosce implicitamente la sovranità israeliana sulla Valle del Giordano, in contrasto con il diritto internazionale, e non va oltre al ribadire il diritto all’acqua a entrambe le parti.
La condizione palestinese
La popolazione palestinese è circa di 4 milioni, la metà di quella israeliana. A dispetto di ciò essa consuma solo il 10-15% delle risorse disponibili nei propri territori, all’interno dei quali vi è una netta disparità nell’accesso alle risorse, dovuta alla frammentazione tra Cisgiordania e Striscia di Gaza.
A seguito degli accordi di Oslo la Cisgiordania fu suddivisa in 3 zone: la zona A, a controllo interamente palestinese; la zona B, a controllo congiunto; la zona C, a controllo interamente israeliano. In tutta la regione è stimato che siano 660 mila le persone che hanno difficoltà nell’accedere alle risorse idriche. Di queste, 420mila consumano meno di 50 litri giornalieri. Le zone A e B sono quelle che meno soffrono il water grabbing, sebbene all’interno delle stesse vi siano evidenti disparità di consumo: nella zona A le aree intorno a Yatta e Dura, nella provincia di Hebron, consumano circa 26 litri a persona giornalieri, una quantità irrisoria rispetto ai 242 litri in media consumati nella provincia di Jericho. Il motivo di tale disparità è da ricondursi alla maggior industrializzazione e sfruttamento agricolo dell’area di Jericho, e ad un vuoto regolamentativo da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) nella gestione delle fonti idriche. Tale vuoto porta a una ripartizione ineguale in base alle necessità economiche, e doveva colmarsi nel 2014 con una legge apposita, ad oggi mai implementata.
La situazione peggiora vistosamente nella zona C, che comprende il 61% di tutta la Cisgiordania ed è paradossalmente la zona maggiormente ricca di risorse idriche. Nell’area solo 16 su circa 180 comunità sono connesse alla rete idrica, che è però quella di Mekorot destinata agli insediamenti israeliani. La ditta assegna ai palestinesi delle quote fisse, che riduce fino al 40% nei periodi di maggiore stress.
In questa dinamica Mekorot ricopre un ruolo chiave come gestore delle risorse idriche. La ditta fornisce circa l’80% dell’acqua utilizzata in Cisgiordania, che vende però ai palestinesi che non sono connessi alla rete ad un prezzo fino a 4 volte maggiore rispetto alle comunità che vi hanno accesso. Per alcune famiglie di pastori, come i beduini, il costo per l’acqua arriva a coprire il 10-15% delle spese totali per il proprio mantenimento, intaccando seriamente le possibilità di sopravvivere.
La dipendenza delle comunità palestinesi dalla rete israeliana è data dallo stato delle infrastrutture palestinesi per il pompaggio e il trasporto, troppo vecchie e malfunzionanti, e ciò causa la perdita di circa un terzo dell’acqua gestita dall’Anp. A questo si aggiunge l’ostruzionismo praticato dall’Amministrazione Civile Israeliana (Ica) e dai rappresentanti israeliani della Joint Water Committee, dove sono bocciate molte delle proposte palestinesi di manutenzione e costruzione degli impianti.
È inoltre lo stesso esercito israeliano che spesso, per ufficiali motivi di sicurezza, danneggia le strutture idriche palestinesi. Emblematico è il caso, a fine 2020, che ha visto l’esercito distruggere un condotto donato da organizzazioni umanitarie nell’ambito dell‘Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA) operanti nell’area di Yatta. Sono proprio le organizzazioni umanitarie a testimoniare la tragica condizione dei palestinesi che vivono nei campi profughi. L’UNRWA non ha mandato per costruire infrastrutture, si limita a fare interventi minimi e a monitorare la qualità dell’acqua, che soprattutto in zona C negli ultimi anni è molto peggiorata, a causa dell’inquinamento dei corsi d’acqua fresca dovuto ai rifiuti provenienti dagli insediamenti israeliani e villaggi palestinesi.
Le infrastrutture idriche della striscia sono state fortemente danneggiate negli ultimi venti anni dai bombardamenti israeliani ogni qualvolta vi sia stato un riaccendersi delle ostilità. Inoltre, l’embargo che Israele impone alla regione per motivi di sicurezza vieta l’importazione di materiali come cemento e ferro, senza i quali non sono possibili né la manutenzione né la costruzione di nuovi impianti. La striscia è poi soggetta ad un forte deficit di elettricità: nel 2021 è stata attiva in media per 13 ore al giorno, ciò ha fortemente limitato l’utilizzo degli impianti funzionanti.
Alle criticità nell’accesso si aggiunge la scarsa qualità dell’acqua pompata dalla falda acquifera costiera a causa del sovrasfruttamento nell’estrazione, tre volte la velocità col quale si riempie, che la rende soggetta a infiltrazioni di acqua marina. Non solo, anche l’eccessivo uso di pesticidi e fertilizzanti da parte degli agricoltori palestinesi, dovuto alla forte aridità del terreno e alle difficoltà nell’irrigarlo, contamina le acque. Ne consegue che solo il 4% dell’acqua proveniente dalla falda è considerata potabile.
Le scelte politiche dietro al water grabbing
Le pratiche di water grabbing rientrano nella politica attuata da Israele dal 1967 denominata in gergo “Campo del Controllo”, volta a mantenere il controllo militare dei territori occupati e a favorire lo sviluppo degli insediamenti di coloni, negli ultimi anni più volte condannata dal diritto internazionale. Dall’altro lato, l’Anp è stata accusata di immobilismo e di non volere agire concretamente per risolvere la situazione. La causa sarebbe nella strumentalizzazione da parte dell’Anp del water grabbing, usato come leva agli occhi della comunità internazionale contro Israele e per mantenere un certo grado di consenso sulla popolazione palestinese.
Il tema del water grabbing è quindi centrale nel conflitto israelo-palestinese e una possibile soluzione pacificatoria non può prescinderlo. Il rapporto rilasciato a settembre 2021 delle Nazioni Unite individua responsabilità e strategie d’azione per entrambe le parti nella direzione di un miglioramento. Tra di esse, a Israele è raccomandato di rimuovere l’embargo verso Gaza per i materiali essenziali alla costruzione e manutenzione delle strutture, di interrompere le pratiche di demolizione degli impianti a uso palestinese in Cisgiordania e di ridurre lo sfruttamento delle risorse idriche e la degradazione ambientale nei territori palestinesi occupati. All’Anp è raccomandata l’implementazione della Legge sull’acqua del 2014, di ridurre la disuguaglianza nell’accesso alle risorse nella zona A e lo sfruttamento della falda acquifera costiera a Gaza implementando estrazioni a terra. A entrambi, di aumentare gli sforzi per raggiungere una ripartizione equa nell’estrazione, nell’utilizzo e nel riutilizzo dell’acqua, data la sua natura di bene essenziale alla vita umana come sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.