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Vent’anni dopo il conflitto in Kosovo è ancora aperto

Tempo di lettura stimato: 6 min.

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A più di vent’anni di distanza, il rapporto tra Kosovo e Serbia resta ancora segnato da continue tensioni, tanto da essere classificato come “frozen conflict”, ovvero “conflitto congelato”. Tra tutte le dispute appartenenti a questa categoria, però, la questione kosovara è sicuramente quella più vicina a noi, per il coinvolgimento della Nato nella risoluzione del conflitto e per i tentativi dell’Europa di rendersi garante di uno status quo precario. Dal 2011, l’Unione Europea, con il supporto dell’Onu, si è posta infatti come mediatore tra i due paesi, ottenendo però scarsi risultati. I rapporti si sono definitivamente interrotti nel 2018, quando il governo kosovaro ha imposto un dazio del 100% sulle importazioni serbe. Dopo il fallimento della diplomazia europea, gli Stati Uniti hanno tentato di rilanciare il dialogo tra i due Paesi, ancora senza successo.

Lo scorso 27 giugno, i presidenti di Serbia e Kosovo, Aleksandar Vucic e Hashim Thaci, erano attesi alla Casa Bianca per riallacciare i rapporti. Pochi giorni prima dell’incontro, le Camere specialistiche del Kosovo (Kosovo Special Chambers), una sorta di corte speciale con sede all’Aia, ha accusato il leader Thaci (ex membro dell’Esercito di Liberazione del Kosovo)  di crimini di guerra e contro l’umanità, annullando le negoziazioni. 

Da dove nascono storicamente le tensioni? 

Il Kosovo è una regione balcanica da sempre situata tra due fuochi: Albania e Serbia. Soggetta ad una secolare dominazione turca e a continui fenomeni migratori, sin dall’inizio del Novecento si contraddistingue per una maggioranza etnica albanese-musulmana, affiancata però da una consistente minoranza serbo-cristiana. Con lo sgretolarsi del potere centrale ottomano, serbi e albanesi iniziano a rivendicare il territorio, fino alla sua annessione alla Serbia nel 1912-1913.

La situazione geopolitica rimane invariata per decenni, ma si sviluppano due fronti contrapposti. Da una parte, il nazionalismo albanese, dall’altra il nazionalismo serbo, entrambi fondati sull’idea di Kosovo come culla della loro storia e cultura. Le volontà indipendentiste da parte della maggioranza albanese vengono continuamente represse, mentre la Serbia procede con una politica di slavizzazione della regione. Infatti, fino al secondo dopoguerra, la popolazione albanese kosovara è oggetto di discriminazioni, espropri, violenze e tentativi di assimilazione linguistica e religiosa

La situazione migliora con il federalismo comunista della Jugoslavia di Tito, che nel 1974 concede al Kosovo lo status di provincia autonoma. Tuttavia, questa indipendenza è destinata a durare poco: nel 1980, Tito muore e riprendono le tensioni tra le due etnie. Nel 1989, il fronte nazionalista revanscista guidato da Slobodan Milosevic sale al governo in Serbia. Nel 1991, in seguito al crollo della Federazione, iniziano le guerre jugoslave, un insieme di conflitti civili e secessionisti che scuoteranno i Balcani per tutti gli anni Novanta, Kosovo compreso. 

L’ultima guerra in Europa

Il conflitto in Kosovo può essere considerato l’ultima guerra in Europa, iniziata nel 1998 e terminata nel 1999. In realtà, il clima di violenza si instaura ben prima. A partire dalla revoca dell’autonomia kosovara nel 1989, il leader serbo Milosevic inizia una vera e propria repressione politica. In risposta al pugno di ferro serbo, crescono le file dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), un’organizzazione paramilitare formata inizialmente da alcuni membri più estremisti della Lega Democratica del Kosovo, il partito principale della regione. L’obiettivo dell’Uck non è solo quello di liberare il Kosovo dall’influenza serba, ma di creare anche una “Grande Albania”, un’unificazione di tutti i territori balcanici a maggioranza albanese.

I primi attacchi da parte dell’organizzazione iniziano nella seconda metà degli anni Novanta. Sono rivolti contro polizia, cittadini di etnia serba e cittadini albanesi accusati di “tradimento”. Nel frattempo, nel 1997, Slobodan Milosevic diventa Presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia e le sue pressioni sulla questione kosovara aumentano.

Lo scoppio del conflitto

Le tensioni esplodono di lì a poco, nel febbraio del 1998. L’esercito jugoslavo decide di attaccare non solo i militanti dell’Uck ma anche la popolazione di etnia albanese nella zona centrale di Drenica. Da qui iniziano mesi di guerriglie, rappresaglie, torture ed uccisioni compiute da entrambi i fronti nei confronti di militari, ma soprattutto di civili. Le violenze perpetrate dalle forze di Milosevic innescano una crisi umanitaria: con lo sfollamento di quasi un milione e mezzo di albanesi kosovari, e con le continue persecuzioni e uccisioni di civili, la Serbia attua un regime di pulizia etnica. Allo stesso tempo, l’Uck viene dichiarata organizzazione terroristica dalle Nazioni Unite.

Il conflitto comincia a destare preoccupazioni nella comunità internazionale, mettendo sul chi va là gli Stati Uniti, il Consiglio di sicurezza dell’Onu e, soprattutto, la Nato. I tentativi diplomatici e le trattative caldeggiate dagli attori internazionali non sortiscono alcun effetto e le ostilità si inaspriscono sempre di più. 

La guerra “umanitaria”

Il 24 marzo del 1999 ha inizio lOperation Allied Force, il primo intervento militare diretto dalla Nato per implementare i principi di pace del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, senza l’autorizzazione del Consiglio stesso. 

Spesso definita guerra “umanitaria” per sottolinearne il paradosso, l’operazione militare consiste in una serie di bombardamenti indiscriminati contro la Repubblica Federale Jugoslava di Milosevic. La Nato detta le condizioni necessarie a cessare i bombardamenti: in primis, la fine dei combattimenti e delle violenze, la ritirata dell’esercito serbo e l’intervento di truppe internazionali. Inoltre, richiede il rientro dei profughi, aiuti umanitari e la definizione di un quadro politico per il Kosovo che segua le direttive internazionali. In poche settimane, Milosevic ritira l’esercito e sigla un accordo che rispetta le richieste Nato. 

Tuttavia, lo status del Kosovo rimane ancora oggi irrisolto: i tentativi di negoziazione iniziati nel 2006 si risolvono in un nulla di fatto. La regione è formalmente sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite, nonostante la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del 2008 da parte dell’Assemblea della Repubblica del Kosovo, istituita a fine conflitto per garantire un autogoverno democratico. 

Violenza per violenza 

Il conflitto in Kosovo, e, più in generale, i conflitti degli anni Novanta nei Balcani, hanno riacceso una discussione sui crimini di guerra e, per la prima volta dopo il secondo dopoguerra, sono stati creati due tribunali ad hoc guidati dalle Nazioni Unite. Il primo è il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, con il compito di perseguire i crimini commessi su tutto il territorio jugoslavo dal 1991 in avanti.  Il secondo, già citato in precedenza, sono le Camere specialistiche del Kosovo, il cui ruolo è invece quello di indagare l’operato dell’Uck in Kosovo. 

C’è da domandarsi se l’istituzione di tribunali per i crimini di guerra abbia un vero valore deterrente o si inserisca semplicemente in un’ottica simbolica e punitiva. Basti pensare che Milosevic è stato accusato dal Tribunale penale internazionale dell’ex Jugoslavia ma non è stato mai portato a processo. O che Thaci, attuale Presidente del Kosovo ed ex militante dell’Uck, sia stato imputato delle stesse accuse solo la scorsa estate, a vent’anni di distanza del conflitto.

Gli interventi internazionali

Un’altra questione ancora aperta è la legittimità degli interventi militari internazionali per la risoluzione dei conflitti e la gestione delle crisi umanitarie. La guerra del Kosovo e l’intervento della Nato hanno portato alla luce il dibattito sull’uso della violenza per fermare la violenza, un tema che negli ultimi vent’anni abbiamo sentito ripetersi sempre più spesso. In ogni caso, i tribunali internazionali, gli interventi militari e le mediazioni diplomatiche non hanno risolto le divergenze in Kosovo, ma le hanno piuttosto congelate, contribuendo al ritorno ad una precarietà che può rimanere tale o esplodere nuovamente.  

*Dopo vent’anni dalla fine della guerra, il conflitto in Kosovo non può dirsi terminato [crediti foto: Marjan Blan via Unsplah]*
Giada Garofani
Nata a Cesena nel '96, a Milano da 4 anni. Laureata in Scienze Politiche alla Bocconi, ora frequento il corso magistrale in Economic and Social Sciences. Nel tempo libero vado ai concerti e a mangiare cinese.

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