Articolo pubblicato su Lavoce
Il “decreto Rilancio” prevede 55 miliardi di aiuti per famiglie e imprese, come due manovre finanziarie, sostenendo moltissime categorie: liberi professionisti, operatori del turismo e tante altre figure professionali. C’è una categoria che però non ha ricevuto l’attenzione riservata alle altre: i giovani. Tra le 464 pagine di decreto, la parola “giovani” compare solo alla sezione di investimenti sull’istruzione e la ricerca, che prevede 1,5 miliardi per tutto il comparto. Per salvare Alitalia è stato speso il doppio, 3 miliardi. Niente sgravi per gli affitti degli studenti fuori sede, nessuna misura per tutelare lo stage o i contratti di apprendistato, disegnati per integrare i giovani nel mondo del lavoro.
Eppure, l’impatto economico per i giovani lavoratori sarà devastante, degradando un quadro già scuro prima dell’arrivo del virus: il tasso di disoccupazione giovanile in Italia era del 28,9 per cento nel 2019, contro il 14,2 per cento della media Ue. Eurofound, agenzia europea per il miglioramento delle condizioni lavorative, ha rilevato come i giovani riportino la più alta percentuale di tensione per ragioni economiche dovute alla crisi, il 21 per cento, rispetto agli over 50, che arrivano al 16 per cento.
I giovani sono quindi tra i primi a pagare il conto del Covid-19, ma come mai non vengono presi in considerazione? E quanto pesa il loro ruolo nella famiglia italiana?
La Repubblica delle paghette
Se i giovani italiani non riescono a trovare stabilità economica nel mercato del lavoro, il loro primo sguardo si rivolge alla famiglia. In Italia sono tanti, tantissimi, i giovani che dipendono finanziariamente dai propri genitori. Secondo uno studio della Gallup Organization, società di public advisory americana, nel 2007 il 50 per cento dei giovani italiani tra i 15 e i 30 anni ha dichiarato di essere finanziariamente dipendente dalla propria famiglia. Il dato è ancora più incredibile se comparato agli altri stati europei: siamo il paese con la più alta percentuale di giovani che ha bisogno di un sostegno economico familiare. In Danimarca e in Svezia solo il 5 e il 6 per cento, rispettivamente, ha dichiarato di dipendere finanziariamente dai propri genitori.
I paesi nordici sono un esempio, ma spesso rappresentano un termine di paragone troppo lontano da noi per cultura ed economia. In Danimarca, per esempio, i giovani che decidono di studiare ricevono un incentivo mensile da parte dallo stato di 825 euro (lordi). Ma anche se guardiamo ai nostri vicini europei, il dato italiano rimane molto alto. In Francia i giovani che hanno dichiarato di ricevere la maggior parte delle loro entrate dai genitori sono il 30 per cento, in Germania il 26 per cento. Perfino Madrid e Atene, che da sempre ci fanno compagnia nel fondo di queste speciali classifiche, hanno un dato più basso del nostro: sono a carico dei loro genitori in Spagna il 34 per cento e in Grecia il 49 per cento dei giovani tra i 15 e i 30 anni.
La cultura della famiglia
L’Italia, dunque, fa molta fatica a tagliare il cordone ombelicale che lega i suoi giovani ai loro genitori. L’equilibrio italiano, in cui i giovani rimangono a lungo sulle spalle delle famiglie, non è del tutto negativo. Una parte della dipendenza deriva da condizioni economiche più difficili rispetto agli altri paesi, certo, ma c’è anche una significativa spinta culturale: la cultura italiana della famiglia. Secondo David S. Reher, demografo ed economista, i paesi del Nord d’Europa sono caratterizzati da legami familiari deboli rispetto a quelli dell’Italia e del Sud d’Europa in generale.
L’importanza dei legami familiari ha un impatto importante sul benessere degli individui: il tasso di suicidi tra i giovani dai 15 ai 19 anni in Italia è di 2,11 ogni 100mila abitanti, in Norvegia di 10,13 (dati Eurostat per il 2016). È un semplice dato, ma molti studi hanno dimostrato il fil rouge che lega la cultura della famiglia al benessere psicofisico. Non esiste però solo bianco o nero: i giovani spagnoli e francesi hanno un tasso di suicidi simile a quello italiano, pur avendo una minor dipendenza dalle loro famiglie.
In molti hanno studiato la cultura italiana della famiglia dal punto di vista della donna, riportando il pesante impatto economico che ne consegue, ma anche i figli sono coinvolti negativamente in questa ruolizzazione famigliare.
Questa cultura, poi, si traduce velocemente in politica. Nei momenti di crisi vengono privilegiati i membri più anziani del nucleo familiare, a cui spetta il compito di badare alle altre persone che ne fanno parte. Non si parla dei giovani come categoria politica perché il compito di occuparsi di loro ricade più sulla famiglia che sullo stato.
Quota 100, ad esempio, agevola il pensionamento anticipato di certe categorie di lavoratori. Introdotto dal governo giallo-verde nel 2019, è costata alle casse pubbliche italiane 5,2 miliardi, avvantaggiando una categoria, quella dei baby-boomer, i figli del boom economico, che ha un peso politico e un ruolo all’interno della famiglia più importante di quello dei giovani.
In passato in molti si sono scagliati contro i giovani italiani, definendoli bamboccioni, fannulloni o sdraiati, ma l’attenzione verso di loro non è uno sfizio generazionale. È piuttosto una necessità per una società, come quella italiana, che si trova a invecchiare più velocemente, ad avere meno nati e una disoccupazione giovanile che tornerà a crescere. Bisogna far lavorare i giovani, se non vogliamo diventare la Repubblica delle paghette.