Il privato convenzionato è infatti una struttura che pur essendo privata stipula con lo Stato un accordo per cui il Sistema Sanitario Nazionale compra le sue prestazioni direttamente senza farle pagare direttamente al cittadino interessato che trova apparentemente le stesse tariffe del pubblico. Una tendenza quella al ricorso al privato confermata dai dati nazionali che parlano di una riduzione totale dei posti letto in Italia dai 244mila del 2010 ai 211mila del 2017 con un aumento della fetta di quelli di tipo privato la cui percentuale è passata dal 21% al 23%. In questi giorni di emergenza e di polemiche Orizzonti Politici ha provato a comprendere meglio quale sia la situazione nel pubblico e nel privato nel concreto e nel quotidiano di questo momento così difficile e per farlo ha interpellato una coppia lavorativamente agli antipodi: Adriana, infermiera nel pubblico in Emilia Romagna, regione punto di riferimento per l’eccellenza nella sanità pubblica, e Luca, anestesista in un importante complesso privato in Lombardia, la regione del privato per eccellenza e che conta un terzo sul totale nazionale dei pazienti in terapia intensiva.
I primi giorni della sanità contro il covid-19
“In Lombardia l’ondata di malati causa covid-19 ha prima investito la sanità pubblica per poi travolgere anche il privato”: spiega Luca che paragona l’afflusso dei pazienti nella sua struttura, dopo che il 3 marzo la Lombardia aveva chiesto ai privati di liberare i letti per i pazienti covid, a uno sciame simile a quello degli orchi ne Lo Hobbit. “La situazione in quei primi giorni è stata di pura emergenza, un’emergenza che in tutta sincerità non credevo avremmo mai dovuto affrontare. Interi reparti sono stati convertiti per affrontare il covid e tutte le altre attività ridotte all’osso. È stato uno shock psicologico vedere così tanta gente da curare e non sapere come curarla materialmente. Una dura prova di fronte cui ho visto anche i medici più esperti avere momenti di smarrimento”. Una situazione simile a quella descritta nel pubblico da Adriana che rivela “io e altri colleghi abbiamo rinunciato ai nostri turni classici per dare una mano nei reparti più colpiti da quest’epidemia”.
Il virus fin dall’inizio non è entrato solo nella vita professionale di Luca e Adriana, ma anche nella loro vita privata. “In casa i nostri rapporti diventati a distanza, non ci si abbraccia e bacia più, la paura è tanta visto che anche mio marito è in prima linea”, spiega Adriana che a queste difficoltà aggiunge il peso gravoso di portarsi dietro ciò che vede ogni giorno in ospedale. Un peso che anche a casa è quasi impossibile scrollarsi di dosso racconta Adriana: “si cerca disperatamente un diversivo per staccare da tutto, ma non sempre ci si riesce perché il pensiero torna ai pazienti, alle loro sofferenze, ai momenti in cui ti chiedono di stare lì con loro e di non abbandonarli. Ho visto intere famiglie ricoverate, ma ogni membro in un reparto differente: storie che spezzano il cuore”.
La situazione oggi
Una situazione di stress psicofisico che purtroppo oggi continua. “Da inizio mese non è quasi cambiato nulla, siamo ancora saturi e con colleghi che da un mese fanno turni di 12-14 ore al giorno. L’unico cambiamento, non so dire se in positivo o negativo, è stato il nostro atteggiamento verso questa emergenza; dallo stupore iniziale ci siamo in qualche maniera abituati a questa situazione, metabolizzandola nel senso che ormai sappiamo che sarà così e speriamo solo finisca presto”. Questo non significa venire meno ai propri impegni, anzi mentre ci parla Luca è di ritorno dalla sostituzione di un collega e domani tornerà in ospedale per sostituirne un altro.
Quando si chiede se si aspettano o chiederebbero qualcosa allo Stato Luca invoca, come già fatto dall’economista Puglisi a OriPo, “una riconversione industriale perché servono materialmente in continuazione macchinari e attrezzature per curare”, mentre Adriana sconfortata si chiede “cosa potrei chiedere ad uno stato che negli anni ha distrutto la sanità pubblica? Non è questo il momento, quando tutto finirà forse se ne potrà parlare, ma non credo che i nostri politici siano in grado di capire neanche dopo questa ‘guerra’. L’unica cosa che sanno fare quando si parla di sanità è tagliare posti letto, tagliare il personale, tagliare risorse. E adesso ci definiscono eroi? Ma per piacere!”. Affermazioni che trovano riscontro negli studi della Fondazione Gimbe che parla di 37 miliardi tagliati alla sanità pubblica negli ultimi 10 anni. Inoltre nel 2018 la spesa pro capita per la sanità in Italia è stata di 2.545 dollari (circa 2.326 euro), in aumento rispetto ai 2.434 dollari (circa 2.225 euro) del 2010, ma minore rispetto a Paesi europei come Germania (5.056 dollari), Francia (4.141 dollari) e Regno Unito (3.138 dollari) due anni fa spendevano più di noi.
Una situazione critica che tuttavia oggi, secondo Luca, il privato si trova ad affrontare con le stesse armi: “L’unica differenza fra noi e il pubblico forse è la velocità di azione perché siamo meno burocratizzati. Ma per il resto siamo tutti sulla stessa barca”. La famigerata mascherina della Decathlon, già al centro di una polemica fra Fontana e il governo centrale, Luca l’ha vista usare nel suo ospedale esattamente come negli ospedali pubblici. E il clima in entrambe le strutture dove la coppia lavora è il medesimo: “il senso di disarmamento di fronte all’impossibilità di poter prevenire la morte dei pazienti è indicibile. L’unica cosa che possiamo fare è sedarli e chiaramente il clima è quello di un continuo senso di impotenza che creerebbe crisi di nervi a chiunque”: spiega Luca. Situazione simile a quella di Adriana che racconta “appena entri in ospedale a parte il silenzio e la desolazione ti senti un po’ disorientata. Sono abituata a vedere un sacco di gente in giro, il personale con il camice, il bar aperto. Invece in questo momento si incontra ogni tanto un collega come te che sta montando in turno, ci si saluta a distanza, i nostri sguardi dicono tutto”.
La situazione comunque tira fuori anche la solidarietà secondo Adriana: “ci sono anche tanti volontari per cui la sensazione di essere soli e abbandonati io non l’ho mai avuta”. Una solidarietà che purtroppo però non sembra bastare oggi perché aggiunge la donna: “credo che nessuna struttura sia stata all’altezza di affrontare un tale scenario da guerra, nessuno mai avrebbe immaginato qualcosa del genere”. Mentre Luca lamenta la mancanza iniziale di informazioni sul contagio “che ha permesso a colleghi di infettarsi senza saperlo. Quando abbiamo capito cosa rischiavamo era troppo tardi”.
Un misto di emozioni e rischi concreti di fronte a cui è davvero difficile fare una sintesi tanto che per farlo Luca racconta di essersi affidato a una poesia di Giuseppe Ungaretti. “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Il titolo è Soldati.