Ma esiste il razzismo nei media? Per molto tempo, infatti, i mezzi di comunicazione sono stati ritenuti colpevoli di fornire una raffigurazione iniqua e tipizzata delle etnie non egemoniche.
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Dal Blackface ai giorni nostri
La tendenza a marginalizzare o caricaturare personaggi appartenenti a minoranze etniche, in particolare quelle afroamericane, è stata a lungo una caratteristica del mondo hollywoodiano e dello spettacolo negli states. Nel 1800, all’interno dei minstrel shows, una forma di spettacolo teatrale statunitense, nasceva il blackface. Questa pratica consiste nel far rappresentare ad attori caucasici personaggi afroamericani in maniera estremamente tipizzata, dipingendosi la faccia di nero.
Sebbene questo tipo di intrattenimento sia stato sradicato già a partire dagli anni ‘50, la tendenza non solo a limitare i ruoli interpretati da autori di minoranze etniche ma anche a creare altamente stereotipati hanno avuto vite più longeve. Insomma, il rapporto tra media e razzismo si è evoluto.
Una televisione “a prova di neri”
Stephanie Larson, professoressa di scienze politiche al Dickinson College, evidenziava nel 2006 (Media & Minorities: the Politics of Race in News and Entertainment) la storica sotto-rappresentanza delle minoranze etniche nei media americani. Per citare qualche dato, nel 1952 solamente lo 0,4% delle performance televisive negli Stati Uniti comprendeva afroamericani. Sebbene la situazione sia migliorata per quest’ultimi, che nel 2015-16 occupavano il 16% dei ruoli parlati, altre minoranze, come quella latina, risultavano ancora ampiamente sotto-raffigurate (solo il 7% a fronte di un gruppo etnico che costituiva il 16% della popolazione Usa secondo il censo del 2010).
Ma la scarsa presenza mediatica delle minoranze etniche non ha riguardato solamente gli Stati Uniti. Nel 2001, l’allora direttore generale della BBC Greg Dyke dichiarò che l’emittente pubblico del Regno Unito era “atrocemente bianco”. Con questa affermazione Dyke sottolineava non solo l’esigua rappresentanza di minoranze etniche nei contenuti prodotti dal broadcaster britannico, ma anche la scarsa multiculturalità dell’azienda. All’interno dell’organizzazione, infatti, di rado le minoranze etniche occupavano ruoli manageriali.
Un rapporto del Ofcom, l’ente regolatore per le società di comunicazione nel Regno Unito, nel 2017 ha evidenziato come questo problema non sia stato ancora risolto. Sebbene il numero di impiegati appartenenti a minoranze etniche nei 4 maggiori broadcasters britannici (12%) si mostrava abbastanza in linea con la composizione della popolazione (dove il 14% apparteneva a etnie diverse da quella britannica), la situazione rimaneva grave per quanto riguarda i ruoli senior. Qui solamente il 6% non era occupato da persone di etnia britannica.
Schiavi, criminali o maggiordomi: a voi la scelta
Tuttavia, uno dei maggiori problemi nel rapporto tra media e razzismo rimane quello della stereotipizzazione. I ruoli raffigurati dalle minoranze etniche nei film e nelle serie televisive sono stato a lungo ristretti a una piccola serie, quasi sempre altamente generalizzati e banali.
Come fa notare Paul Hodkinson (Media, Culture and Society), per lungo tempo le parti recitate dagli attori afroamericani hanno riguardato esclusivamente personaggi legati a figure come quella dello schiavo, del maggiordomo o del criminale. Solamente in seguito ai movimenti per i diritti civili degli anni cinquanta e sessanta si sono aperte le porte a ruoli più “edificanti” per le persone di colore, come quello dell’agente di polizia o del dottore.
Infine, solo a partire dagli anni novanta gli attori afroamericani hanno iniziato a vestire i panni del protagonista. Denzel Washington, Will Smith, Samuel Jackson e Morgan Freeman sono sicuramente tra gli esempi più celebri. Proprio quest’ultimo ha interpretato il primo presidente afroamericano della storia del cinema nel film Deep Impact (1998), anticipando di nove anni quella che sarebbe stata l’elezione di Barack Obama.
Lo strano caso Nba
Anche nello sport il problema del razzismo non è nuovo. Uno dei casi più controversi, e in un certo senso più interessanti, ci viene fornito oltreoceano dalla National Basket Association (comunemente Nba). Quest’ultima, come tutti gli Stati Uniti, è stata protagonista di episodi di razzismo e discriminazione. Tra i più recenti, quello di Donald Sterling, ex presidente dei Los Angeles Clippers che nel 2015 è stato bannato a vita dalla lega e multato per 2,5 milioni di euro dopo alcune intercettazioni telefoniche in cui esprimeva pensieri razzisti (“not bring [black people] to my games”).
Nonostante ciò, rispetto ad altri sport, il basket americano sembra essere estremamente più inclusivo e aperto nei confronti delle minoranze. Fondata nel giugno del 1946, la lega statunitense vide in Wataru Misaka il primo cestista appartenente a una minoranza etnica, nella stagione 1947-48. Tre anni più tardi, nel 1950, Earl Francis LLoyd era il primo afroamericano a vestire la casacca di una franchigia. Dopo gli anni 60 la conquista della lega da parte dei giocatori afroamericani divenne sempre più inarrestabile. La componente afroamericana, infatti, rappresenta più del 70% percento sul totale dei cestisti sin dagli anni 90’.
“Dov’è il problema?” vi chiederete. Diversi commentatori evidenziano come la rappresentazione di afroamericani come atleti sia di gran lunga più frequente rispetto a quella nelle vesti di coach, presentatori sportivi o managers. Se ciò ha sicuramente un effetto positivo nel controbilanciare alcuni stereotipi, rischia di rinforzarne altri allo stesso tempo. Ad esempio, miti comuni come la prestanza fisica e l’istinto aggressivo delle persone di colore rischia di prendere il sopravvento; mostrando queste comunità come inadatte a ruoli di responsabilità, pianificazione e amministrazione.
Un proiettile d’argento che non esiste
Insomma, il rapporto tra media e razzismo è un problema complesso, e non esiste nessun proiettile d’argento che possa risolverlo in un clic. Invertire la raffigurazione delle minoranze, fornendo immagini positive degli individui appartenenti a queste comunità, non è la soluzione.
Questo approccio rischia di creare quello che può essere definito un onere di rappresentanza, che affligge queste minoranze e la loro descrizione all’interno dei media. Ritrovandosi isolati in un universo mediatico e artistico dominato da “bianchi”, come sottolinea lo storico d’arte britannico Kobena Mercer, le raffigurazioni di etnie diverse vengono percepite in termini essenzialisti. In altre parole, gli spettatori tendono a categorizzare le diverse etnie sulla base dei pochi esempi forniti dai media. Si rischia, per esempio, di far diventare gli attori di queste minoranze dei veri e propri totem per le loro comunità. Questo peso si riflette soprattutto sui produttori di contenuti, come scrittori, sceneggiatori, registi e attori. Questi, per evitare di gettare una cattiva luce su queste comunità, soffrono della pressione di dover fornire, qualsiasi volta, immagini “edificanti” delle minoranze etniche.
Razzisti a chi?
Ma quindi la realtà che ci viene trasmessa dal mondo dello spettacolo è razzista? Se si, è capace di influenzare la società che usufruisce di questi messaggi?
Per rispondere occorre tenere a mente che se da una parte i media possono essere considerati una sorta di demiurgo della società e dell’opinione pubblica, dall’altra, invece, i mezzi di comunicazione sono anche ambasciatori delle idee delle comunità a cui appartengono. In sostanza, così come i media vengono partoriti e plasmati da determinati contesti socio-culturali, allo stesso tempo riescono ad influenzare il milieu in cui sono immersi attraverso la rappresentazione (o meglio ri-rappresentazione) della realtà. Un atto che, citando Stuart Hall, non è mai ideologicamente neutrale.