Il fenomeno rappresenta uno dei più recenti e incerti sviluppi della produzione e del traffico illecito di armi da fuoco nel mondo, in grado di sfruttare le nuove tecnologie di stampa 3D per creare, da zero e a casa propria, delle armi perfettamente funzionanti. L’impiego di un materiale finora considerato innocuo in termini di sicurezza (la plastica) e le modalità di produzione adottate (il fai da te) rendono, ad oggi, quasi impossibile per i governi rintracciare la quantità di armi prodotte con questo tipo di manifattura. Il rischio è che siano sovvertiti i concetti di sicurezza e di ordine costituito a cui siamo abituati.
The Liberator: l’apripista delle armi 3D
I primi prototipi di armi 3D fecero la loro comparsa nella prima metà degli anni Novanta, quando alcune imprese testarono la possibilità di creare esemplari di armi da fuoco ex novo, per mezzo delle allora recentissime tecnologie di stampa 3D. L’idea venne concretizzata per la prima volta il 5 Maggio 2013, quando la Defense Distributed (DD), una compagnia privata texana che si autodefinisce “a servizio del grande pubblico”, presentò un primo prototipo di arma da fuoco quasi completamente realizzata per mezzo di una stampante 3D.
L’arma fu battezzata “Liberator” (Liberatore), come la piccola pistola automatica .45 ACP prodotta negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale. Per celebrare la realizzazione, la compagnia rilasciò un video in cui il portavoce della DD, Cody Wilson, sparava un colpo con il neonato Liberator, dimostrando per la prima volta come un’arma autoprodotta, e di plastica, fosse concretamente capace di fare fuoco. Vennero distribuiti gratuitamente online i modelli progettuali del prototipo in Autocad, e nei due giorni in cui questi furono disponibili in rete, prima che il Dipartimento di Stato americano ordinasse alla Defense Distributed di eliminarli, più di 100mila persone ne scaricarono i file.
Il Liberator era un’arma a colpo singolo e poco efficace se comparata alle capacità di un’arma tradizionale. Ciononostante, più importante del tipo di modello prodotto fu l’idea che questo portava con sé e il cambio di paradigma cui condusse: fabbricare un’arma da fuoco funzionante direttamente a casa propria, a basso costo, senza dover possedere particolari competenze tecniche, e soprattutto senza dover rispettare tutti i passaggi burocratici necessari per possederne una, era adesso possibile.
Armi 3D: un fenomeno anche Europeo
Fino a qualche anno fa la produzione di armi 3D pareva riguardare la sola realtà statunitense, complice una legislazione federale a maglie larghe sul possesso di armi. Oggi il fenomeno si sta estendendo anche nel più restrittivo continente europeo, che vanta alcune tra le leggi più severe al mondo sulla produzione, il possesso e il traffico di armi da fuoco di piccolo taglio. Le direttive Ue stabiliscono infatti precisi requisiti per la detenzione di armi da parte dei cittadini europei, vietandone la produzione e la vendita individuale. Inoltre, ulteriori regolamenti hanno definito più nel dettaglio le condizioni e le procedure da seguire per la fabbricazione a livello industriale e la vendita all’interno e all’esterno del continente. Nonostante questa rigida struttura legislativa, le modalità e gli strumenti di realizzazione di certe categorie di armi 3D risultano tanto ordinari e semplici da riuscire ad aggirare le restrizioni e i meccanismi di controllo e sicurezza nazionale.
Questo è il caso delle cosiddette “Ibride”, armi dal design realizzato quasi completamente in plastica 3D a cui vengono assemblati pezzi metallici comunemente acquistabili in negozio, come chiodi, barre in acciaio e piccoli tubi idraulici. Componenti di questo tipo sono facilmente reperibili sul mercato e, in quanto innocui e ordinari, fuggono l’attenzione delle forze dell’ordine e non risultano soggetti ad alcun tipo di restrizione normativa. Un esempio di Ibrida è la Fuck Gun Control 9 (FGC-9): una semiautomatica di calibro 9 mm, prodotta in Europa e definita come l’arma 3D più efficace, resistente e facile da produrre, attualmente diffusa nel nostro continente. La FGC-9, nata dall’ambizione e dal lavoro di “Jstark” (pseudonimo dell’ideatore del prototipo), può essere costruita in un paio di settimane ad un costo relativamente basso, considerando tanto la semplicità dei materiali d’impiego che il costo delle stampanti 3D in continua decrescita.
Grazie alle illimitate risorse di internet, avere accesso alle informazioni necessarie per costruire un’arma 3D è ormai molto semplice. Online sono disponibili gratuitamente disegni originali, video tutorial e modelli CAD completi di note su dimensioni e modalità di assemblaggio. Il network di hobbisti di armi 3D si sta lentamente espandendo tanto negli States quanto nell’Unione Europea e sono milioni gli appassionati che ogni giorno si confrontano sulle diverse piattaforme di discussione per migliorare progetti e qualità delle armi da fuoco tridimensionali. È dunque molto probabile che la Fuck Gun Control 9 rappresenti solo la prima stagione di una nuova e più ampia gamma di armi 3D in Europa, realizzabili quasi interamente a casa, economiche e facili da costruire.
“Deterrence Dispensed”: il network europeo
Sorella europea della compagnia texana Defense Distributed, è la Deterrence Dispensed: il network più attivo in Europa per la distribuzione di informazioni e prototipi di armi da fuoco 3D. Fondata dallo stesso ideatore della FGC-9, Jstark, la comunità è costituita da amatori che discutono, si confrontano e si scambiano dati e informazioni per il miglioramento dei modelli di armi 3D. Nonostante la condivisione di informazioni non costituisca un illecito in Europa, la maggior parte dei membri del network è coinvolta della produzione individuale (ma comunque illegale) di armi a tre dimensioni. A tal proposito, secondo quanto dichiarato dal fondatore Jstark, la Deterrence Dispense possiede un’organizzazione volutamente fluida e decentrata, in cui ogni membro interagisce da pari con gli altri, nell’assoluto anonimato.
A differenza della struttura gerarchica della Defense Distributed, l’idea dietro la Deterrence Dispensed è che “come un’Idra, se qualcuno dovesse andare giù, ci sarà qualcun altro pronto a sostituirlo”. Nonostante sia stato associato a gruppi anarchici o di estrema destra, questo network europeo non risponde ad alcuna ideologia politica specifica e gli unici pilastri alla base della comunità sono la libertà di espressione e quella di possedere armi. Secondo il movimento infatti, la possibilità di detenere un’arma altro non è che un naturale diritto umano: ogni individuo deve infatti potersi difendere dal monopolio di Stato dell’uso della forza. Sicurezza è dunque, per la Deterrence Dispensed, poter risultare offensivi nel caso in cui “qualche dittatore cerchi di imporre leggi tiranniche sulla nostra comunità”.
La nuova frontiera della (in)sicurezza?
La produzione di armi 3D da parte di comunità anonime di individui solleva nuove e importanti questioni di ordine pubblico. In primo luogo, esiste il rischio che delle armi da fuoco, tanto offensive quanto facilmente accessibili al pubblico, possano proliferare senza limiti all’interno del continente come conseguenza dei costi contenuti e della facilità di fabbricazione. Inoltre, fattori come l’impossibilità di tracciare questo tipo di produzione, l’assenza di numeri di serie sui prototipi esistenti e l’incapacità degli strumenti di sicurezza attualmente in uso (come i metal detector) di identificare un oggetto interamente in plastica come potenzialmente offensivo, impediscono di quantificare l’entità e la diffusione del fenomeno.
Il Congresso americano, così come l’OSCE (a livello europeo), stanno discutendo eventuali strategie da adottare per contenere la proliferazione di queste armi e i rischi a essa connessi. Tuttavia, una serie di dubbi ha fin qui ostacolato l’elaborazione di un piano concreto. Non è chiaro, ad esempio, quando la condivisione di un file progettuale o lo scambio di informazioni online possa essere definita pericolosa, e vada quindi limitata, e quando no. Esistono poi diverse perplessità sulla liceità di un ulteriore intervento normativo. Quanto è legittimo, in una struttura legislativa già rigida come quella europea, limitare ancora la libertà individuale? Ci si può dire davvero “sicuri” in regime sempre più restrittivo? Il confine tra libertà e (in)sicurezza risulta, ancora una volta, sottilissimo.