La caduta dell’Unione Sovietica, formalizzata il 25 Dicembre 1991 in un breve discorso televisivo dall’allora Presidente Mikhail Gorbachev, rappresenta uno degli eventi cruciali e dirompenti del secolo scorso, marcando un cambio di paradigma storico, politico ed ideologico epocale.
Le linee di crisi nell’URSS
Il percorso che culmina con la caduta dell’Unione Sovietica è sfaccettato e complesso, e si articola lungo 4 direttrici che combinano fattori interni ed esterni, e legano cause di lungo corso a contingenze storiche.
La prima è la crisi economica. Nell’esperienza sovietica di un’economia pianificata centralmente, la crisi è figlia di un modello produttivo che puntava allo sviluppo industriale e alla piena occupazione, ma senza essere in grado di raggiungere buoni tassi di produttività e innovazione tecnologica. Tale impostazione era resa possibile soltanto dalla costante tendenza ad una crescita economica eccessiva, agevolata dalla necessità di industrializzare il paese e dalle infusioni coatte di capitali, risorse e prodotti nelle industrie strategiche (in particolare i comparti pesanti e specificatamente quello bellico). I problemi di tale modello di sviluppo vennero però a galla con la stagnazione economica, nel momento in cui la pianificazione centralizzata risultò incapace di gestire efficaciemente un impianto economico così ampio e diversificato.
Parallelamente alla crisi economica, il secondo elemento di crisi si può ritrovare nell’assetto politico-istituzionale, ossia nella composizione dell’amministrazione e delle élite. Il “capitale umano” dell’intera società sovietica, dall’amministrazione locale alle dirigenze economiche, era un corpo di funzionari e membri del Partito che si era fatto negli anni sempre più refrattario all’innovazione. Dalla destalinizzazione in poi, l’Unione Sovietica vede il proprio apparato dirigenziale sclerotizzarsi, fino a divenire un “burocratismo” privo di propositività al cui interno si formarono personalismi, gruppi di interesse e strutture di pressione (la cosiddetta nomenklatura, che con le riforme di Gorbachev si attestò come vincitrice definitiva della lotta alla predominanza).
Il terzo elemento è quello ideologico: a partire dagli anni ’70 si assistette alla depoliticizzazione della società ed il Paese, nato sull’onda dell’entusiasmo rivoluzionario, perse completamente la sua impostazione ideologica. Prevalse invece una visione pragmatica di interesse individuale e vantaggio economico, sempre più simile al modello occidentale. Questa, unita alla crisi economica (e quindi all’arrestarsi del miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori) avrebbe portato ad un’esplosione di insofferenza verso il modello centralista.
In quarto luogo, l’apertura alla coesistenza pacifica nello scenario internazionale, con un forte impegno al disarmo accompagnato dalla partecipazione al mercato concorrenziale globale, sancirono la sconfitta del blocco sovietico nella competizione internazionale, e la sua totale subordinazione economica (l’URSS verrà equiparata a un paese “del Terzo Mondo” per il suo ruolo nell’economia globale di fornitore di materie prime ed esportatore di prodotti finiti): si trattava, sostanzialmente, della conclusione della Guerra Fredda.
Gorbachev e la perestroika
In tale scenario, si può trovare un elemento decisivo verso la caduta dell’Unione Sovietica nelle riforme di Mikhail Gorbachev, che segnarono gli ultimi anni dell’esperienza comunista e, de facto, poserò le basi per la futura gestione dell’apparato economico e normativo in Russia. Nel biennio 1987-1988, infatti, l’allora Segretario del Partito Comunista varò una serie di provvedimenti economici e politici destinati ad avere un enorme impatto sulla macchina statale sovietica.
Il progetto di riforma di Gorbachev teorizzava una moderata accettazione degli strumenti del libero mercato sotto l’egida del controllo centrale, liberalizzando l’impresa privata, aprendo le imprese sovietiche agli investimenti stranieri e, soprattutto, incrementando l’autonomia gestionale e finanziaria delle imprese. Lo strumento principale fu individuato nel fornire libertà ai manager nell’individuare e utilizzare risorse e fondi pubblici e privati, lasciando ampio spazio alla contrattazione fra singole imprese e rinunciando, quindi, al monopolio statale del commercio con l’estero.
Tuttavia, queste riforme portarono a forti attriti con l’apparato partitico e dirigenziale di gruppi di interesse. L’anarchia economica, a sua volta, portò all’appropriazione delle industrie strategiche da parte degli esponenti della nomenklatura più influenti, andando a delineare una vera e propria élite economica che si poteva dire, ora a tutti gli effetti, proprietaria della struttura industriale del traballante Stato sovietico.
Durante gli ultimi anni, si concentrarono dunque tutti i problemi irrisolti fino ad allora: al caos economico si affiancò una crescente inflazione dovuta alla liberalizzazione dei prezzi, e la crisi dei beni di consumo e la sempre più marcata dipendenza dalle importazioni estere. Di seguito, la corruzione e lottizzazione delle risorse, secondo i gruppi di interesse più influenti, paralizzò completamente l’industria sovietica. Infine, la crisi fiscale e la democratizzazione, con il cruciale ruolo dei mass media, che esacerbò le spinte centrifughe delle repubbliche sovietiche mosse da spiriti nazionalisti.
La conseguenza fu il rigetto totale per la sovrastruttura sovietica in tutte le sue forme, a cominciare dall’Unione stessa. Persino la Russia stessa si separò da essa, ribadendo la sovranità nel 1990 e instaurando un braccio di ferro per il possesso delle imprese situate sul territorio russo e per la gestione autonoma del bilancio della Repubblica Federativa.
Il crollo dell’URSS avvenne quindi in un contesto di totale caos normativo ed economico: se da un lato si delineano chiare quali sarebbero state le strutture uscite vincitrici dalla transizione post-sovietica, dall’altro non solo viene a mancare una regolamentazione di tale transizione, ma si assiste a uno sfaldamento totale del tessuto politico, normativo e istituzionale che aveva dominato per oltre 70 anni.
L’ ascesa degli oligarchi
Spesso, è proprio dal caos che nascono nuovi assetti di potere. Ed è proprio nel caos della dissoluzione sovietica che emergono nuove figure –gli oligarchi– che tutt’oggi rivestono una notevole importanza nella società russa, disponendo di immensi capitali ed essendo, spesso, ai vertici di settori strategici dell’economia.
Si tratta, per la maggior parte, di imprenditori dinamici riusciti ad arricchirsi dopo essersi inseriti negli spazi lasciati aperti dalla transizione verso l’economia di mercato. Molti, ad esempio, fecero fortuna grazie all’arbitraggio tra il mercato post-sovietico ed il mercato occidentale, comprando beni nel mercato in cui costava meno, e rivendendoli dove i prezzi erano maggiori. L’esempio paradigmatico è il petrolio: economico nella Russia post-sovietica, consentiva ampi margini di guadagno se esportato in Occidente. Nell’altra direzione, invece, fluivano beni ad alto valore aggiunto che l’economia centralizzata comunista non era stata in grado di produrre su larga scala, soprattutto automobili (si calcola che nell’Unione Sovietica ci fosse una macchina ogni 22,8 persone, in confronto all’ 1,7 degli Stati Uniti, e uomini come Boris Berezovsky ebbero modo di avvantaggiarsene) e computer, essenziali per proiettare la neonata Federazione Russa verso la modernizzazione digitale ed alla base delle fortune di oligarchi come Artyom Tarasov.
Allo stesso tempo, le possibilità di arricchirsi passavano anche attraverso la privatizzazione delle grandi imprese a controllo statale. Uomini come Vladimir Potanin si resero presto conto che nella situazione in cui il fragile, e indebitato, governo russo metteva le proprie quote partecipative in grandi imprese (la maggior parte delle quali legate al settore petrolifero) come collaterale per ottenere prestiti, si potevano aprire spazi per facili guadagni. Il procedimento, spiegato da Foreign Affairs, prevedeva la concessione di prestiti al governo di Mosca da parte di banche controllate dagli oligarchi; quando il governo russo si dimostrava insolvente -com’era prevedibile- le quote di partecipazione nelle grandi imprese statali, poste a garanzia dei prestiti, erano messe all’asta: quasi inevitabilmente, i vincitori dell’asta erano affiliati alle banche (che a loro volta erano affiliate agli oligarchi), ed acquistavano le partecipazioni poco sopra il prezzo base. Questo meccanismo fu, ad esempio, alla base dell’acquisizione della compagnia petrolifera Yukos (allora una delle maggiori al mondo) da parte dell’oligarca Mikhail Khodorkovsky.
In poco tempo, quindi, lo spazio post-sovietico vide l’emergere di una nuova casta di figure che, grazie alle risorse finanziarie a disposizione ed al controllo di settori chiave strategici dell’economia, avevano gli strumenti per influenzare la politica della neonata Federazione Russa. Così accadde soprattutto nel decennio di governo Eltsin, durante il quale gli oligarchi seppero influenzare le decisioni politiche tirando la leva -tra le altre- del sostegno finanziario alle campagne elettorali.
La stessa cosa, però, non si può dire per l’era di Vladimir Putin: salito al potere, fece intendere ai plutocrati che avrebbero potuto badare indisturbati ai loro affari, a patto di non mischiarsi con la politica. La punizione, per chi avesse disobbedito, si può dedurre dalle sorti di due dei più ricchi e potenti oligarchi russi, Khodorkovsky e Berezovsky, caduti in disgrazia e costretti all’esilio. Entrambi avevano una cosa in comune: aver finanziato l’opposizione al regime.
Testo a cura di Sebastiano Pala e Andrea Montanari