Il 2020 per la Thailandia è stato un anno di proteste, che hanno marcato una divisione politica interna e uno scontro generazionale sempre più netti, con i giovani da un lato, e la monarchia e i militari dall’altro. Il Paese è ad oggi fortemente controllato dalle stesse Forze armate che effettuarono un colpo di stato nel 2014, e che negli ultimi anni hanno supportato il progressivo accentramento del potere attuato dal monarca Maha Vajiralongkorn. Dal 2014 il Primo Ministro a capo del governo è l’ex-generale Prayuth Chan-o-cha, che alle elezioni del 2019 si è assicurato un nuovo mandato grazie alla Costituzione del 2017. Quest’ultima infatti, redatta dai militari, ha sancito la nomina diretta dei 250 membri della Camera alta (il Senato) da parte dell’esercito, e amplificato il potere della Corte costituzionale, tradizionalmente vicina al governo.
Le elezioni del 2019 sono state giudicate da numerosi osservatori nazionali e internazionali fittizie, e il loro esito fonte di un malcontento sempre più crescente. Nel febbraio 2020 la dissoluzione del Partito del futuro nuovo (FFP) da parte della magistratura tailandese ha fatto scaturire la prima ondata di proteste. L’FPP, partito di opposizione accusato di avere ricevuto fondi illegalmente, era estremamente popolare tra i più giovani. Raccogliendo sei milioni di voti, si era aggiudicato il terzo posto alle elezioni del 2019. Le proteste, iniziate nelle università, si sono spente con l’avanzare della pandemia di Covid-19 e delle misure di contenimento, per riprendere poi a luglio nelle piazze ancora più intensamente, sfidando i divieti di non assembramento e susseguendosi quasi quotidianamente in 55 delle 77 province del Paese.
Cause e richieste delle proteste
Instabilità politica e proteste non sono una novità in Thailandia, che dagli inizi del ‘900 ha visto susseguirsi ben 13 colpi di stato. Tuttavia, quelle del 2020 sono peculiari sia per l’ampiezza del sostegno ricevuto, che per l’audacia delle richieste mosse. La rivolta portata avanti dai giovani, ribattezzata fenomeno “youthquake” o “scossa giovanile”, si oppone con forza a qualcosa che per secoli è stato considerato sacro: la monarchia. In Thailandia vige infatti una delle leggi di lesa maestà più severe al mondo, che i manifestanti vorrebbero abolire. Tale legge, sancita dall’articolo 112 del Codice penale, prevede dai 3 ai 15 anni di carcere per chiunque offenda la figura del re. Secondo il Bangkok Post, dal 2014 ad oggi oltre 90 persone sono state accusate di averla violata e 43 condannate.
Sotto lo slogan di “Resign, Rewrite, Reform”, i manifestanti chiedono lo scioglimento dell’attuale governo e la destituzione del Primo Ministro Prayuth, la modifica della Costituzione, una riforma della monarchia volta a limitare i poteri del re e dell’esercito e nuove elezioni democratiche. In generale le proteste sono ancorate a richieste di libertà democratiche, e reclamano la fine della censura e delle violenze nei confronti degli attivisti.
Oltre che dal contesto politico, il malcontento è nutrito anche dalla precaria situazione economica e sociale del Paese, che grava maggiormente sui più giovani. Il 50% dei 15-24enni è infatti disoccupato o inattivo, e paradossalmente le probabilità di non trovare lavoro è tre volte maggiore per i giovani diplomati rispetto a chi ha abbandonato gli studi. La situazione economica si è aggravata con il Covid-19: il debito pubblico e le disuguaglianze in aumento già da prima della pandemia, sommati a un’economia largamente dipendente dal turismo e a rigide gerarchie sociali, hanno contribuito a una contrazione del Pil nel secondo trimestre del 2020 pari al 12,2%, il peggiore calo registrato dalla Crisi asiatica del 1998.
Proteste e social tra attivismo e censura
Durante le proteste, la messa in discussione della figura monarchica passa attraverso satira, canzoni rap, slogan, scritte e performance irriverenti, infrangendo così il secolare tabù della monarchia e della sua sacralità. Oltre alla forte componente studentesca, ciò che rende questa ondata di proteste sui generis è l’ampio uso di un simbolismo di protesta innovativo, che rimanda ai movimenti democratici di Hong Kong e alla cultura pop, e strizza l’occhio a un pubblico internazionale. La nuova generazione di attivisti, con lo sguardo rivolto verso il mondo, si organizza e mobilita sui social, coniugando attivismo online e offline. Lo spazio delle proteste non è solo quello fisico, e oltre che nelle strade la rivoluzione prende forma sul web. Twitter e Telegram permettono di organizzare flash mob con poco preavviso, arginando così il rischio di repressione, mentre i numerosi hashtag pro-democrazia scalano le tendenze e diffondono i messaggi di protesta.
La situazione attuale per quanto riguarda la censura e la libertà di espressione – fisica e online – è oggetto di denuncia da parte di molteplici organizzazioni internazionali. Reporters Without Borders, nella annuale classifica dell’Indice di libertà di stampa, posiziona la Thailandia al 140esimo posto su 180 Paesi. Uno studio di Comparitech che misura la censura online in una scala che va da 1 a 10 – per cui 10 rappresenta massime restrizioni – assegna alla Thailandia 6 punti, a causa dei blocchi su numerosi siti web. Anche il World Report 2020, redatto da Human Rights Watch, accusa le leggi in vigore, tra cui il Cyber Crime Act e quella di lesa maestà, di rendere qualsiasi critica nei confronti del regime perseguibile penalmente, e mette in evidenza la repressione del dissenso attuata nei confronti dei media nazionali.
Oltre ai numerosi arresti, ad agosto il regime di Bangkok ha impedito l’accesso al “Royalist Marketplace“, gruppo Facebook con oltre un milione di iscritti in cui veniva criticata la monarchia. Inoltre, nel tentativo di arginare la diffusione delle informazioni legate alle proteste, il governo ha bloccato oltre 2000 siti e account accusati di condividere contenuti illegali, e dichiarato di volere bannare Telegram dal Paese. Tentativi non andati del tutto a buon fine, vista l’immediata creazione di un nuovo gruppo Facebook, che ha raggiunto in poche ore più di 500 mila iscritti, e il progressivo spostamento della mobilitazione pubblica online su piattaforme alternative come “Minds”, open source e decentralizzate.
Le proteste oltre la Thailandia: la “Milk Tea Alliance”
#MilkTeaAlliance For the win 🇹🇼🇹🇭🇭🇰#Taiwan #Thailand #Hongkong#Milktealogy pic.twitter.com/7G0tG0kX6x
— Tpagon ‘Champ’ W. (@tpagon) April 15, 2020
È proprio sui social che è si formata la “Milk Tea Alliance”, alleanza digitale che racchiude sotto l’emblema della bevanda tradizionale del tè con il latte le istanze democratiche avanzate dagli studenti in Thailandia, Taiwan e Hong Kong, in opposizione (anche simbolica) alla Cina, dove il tè si beve senza latte. Nata ad aprile su Twitter come risposta ad attacchi diretti da troll nazionalisti cinesi, l’Alleanza si è poi evoluta in una battaglia a suon di meme, e successivamente in un movimento più ampio, icona di solidarietà reciproca e di lotta politica. A unire questa rete transnazionale di giovani attivisti è l’aperto dissenso contro i rispettivi governi, tailandese e cinese, e un condiviso sentimento anti-Pechino.
Oltre che dell’autoritarismo del governo, i giovani thailandesi sono critici anche di quella che viene percepita come un’eccessiva vicinanza alla Cina. Tra il regime di Bangkok e quello di Pechino intercorre infatti una stretta alleanza, costituita sia da forti legami economici bilaterali che relazioni politiche e militari. Nel piano strategico di Pechino spiccano gli interessi legati al progetto infrastrutturale Belt and Road Initiative, e la volontà di consolidare la propria posizione all’interno della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), ad oggi il maggiore accordo commerciale al mondo, firmato a novembre da Cina e altri 12 Paesi in Asia e Oceania.
L’hashtag #milkandteaalliance ha raggiunto le tendenze sui social a giugno 2020, quando Pechino ha varato la legge sulla sicurezza nazionale riguardante Hong Kong, e in seguito al boicottaggio del film Disney “Mulan”, criticato per il sostegno espresso dall’attrice protagonista alla polizia di Hong Kong e per essere stato girato nella regione dello Xinjiang. La Milk Tea Alliance sembrerebbe dunque porsi come simbolo di un nuovo attivismo a favore degli ideali democratici, che vede i giovani come protagonisti e i social media come strumenti principali di mobilitazione. Tramite tali canali di comunicazione, gli attivisti riescono a portare problematiche nazionali sotto i riflettori mondiali, attirando sempre più sostenitori, raccogliendo consensi nel proprio Paese così come all’estero, e favorendo la formazione di coalizioni addirittura transnazionali – di cui l’Alleanza del tè e del latte è un chiaro esempio.
*Proteste di fronte al Monumento alla Democrazia a Bangkok [crediti foto: Milktea2020 CC BY-SA 4.0]
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