Legge sulla sicurezza nazionale: obiettivo e punti critici
La base giuridica su cui si fonda la manovra del governo centrale risiede nell’Articolo 18 della Basic Law di Hong Kong. Questo prevede che tutte le leggi nazionali cinesi incluse nell’Annesso III della Basic Law stessa, vadano applicate anche nell’ex-protettorato britannico, e attribuisce al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo la licenza di aggiungere ulteriori norme alla lista del sopracitato Annesso III.
L’obiettivo della “Legge della Repubblica Popolare Cinese sulla salvaguardia della sicurezza nazionale nella Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong (Hksar)” – questo il nome completo – è di prevenire, sopprimere e punire i reati di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con un paese straniero a danno della stabilità interna. Le pene vanno dai tre anni all’ergastolo, a seconda della gravità dell’illecito e del grado di coinvolgimento.
Nonostante tali crimini possano sembrare plausibili timori di qualsiasi governo, sono proprio le possibili associazioni di questi ultimi alle attività di protesta a causare apprensione tra gli hongkonghesi. Ad esempio, atti come il ricorso alla violenza contro altre persone, l’innesco di esplosioni e il sabotaggio di mezzi di trasporto (la metro…) o infrastrutture, piuttosto ricorrenti durante i tumulti, sono qualificati come “terroristici” dall’Articolo 24, e pertanto punibili secondo le disposizioni della legge sulla sicurezza. Un altro articolo eccessivamente interpretabile è il 20, che identifica come perseguibile per secessione chi con o senza l’uso della forza, pianifica, commette o partecipa ad atti volti a separare Hong Kong dal resto della Cina.
Stando a quanto dichiarato nel documento ufficiale e ribadito dalla stampa cinese, l’intento di Pechino è di preservare l’ordine nel rispetto del principio “un paese, due sistemi”, grazie al quale i cittadini di Hong Kong godono e godranno ancora di un alto grado di autonomia. Ciononostante, agli occhi di molti osservatori resta difficile leggere questo provvedimento in un’ottica diversa da quella di un’ingerenza sempre maggiore del governo centrale su Hong Kong.
Ciò che ha destato maggior sgomento è la generale vaghezza, tipica della comunicazione politica cinese, sui concetti di minaccia alla sicurezza nazionale e sulla definizione dei reati già menzionati. La poca chiarezza lascia infatti ampio spazio all’interpretazione arbitraria dei magistrati, che in occasione dei processi per i reati descritti nel nuovo decreto saranno direttamente nominati da Pechino. Il rischio è che in tal modo il Partito Comunista si assicuri la possibilità di un massiccio ricorso alla legge sulla sicurezza per scoraggiare le proteste e punire i movimenti a sostegno della democrazia.
Come racconta a OriPo il corrispondente da Pechino per La Repubblica Filippo Santelli, il nodo critico della questione risiede nella combinazione tra l’ampiezza e la vaghezza con cui sono definiti i crimini nel contesto della legge, e la costituzione di una serie di organi speciali all’interno delle istituzioni di Hong Kong che si occuperanno dell’applicazione, dalle indagini fino alla sentenza. L’intromissione negli affari interni della Hksar è quindi simboleggiata dalla creazione di agenzie e nomina di funzionari con poteri non solo di indirizzo, ma anche giudiziari, che risponderanno al governo centrale.
È prevista innanzitutto la creazione di un Comitato speciale per la salvaguardia della sicurezza nazionale (Art. 12) presieduto dal Chief executive Carrie Lam, con il compito di monitorare e garantire l’implementazione del provvedimento anche tramite la predisposizione di nuovi piani d’azione ideati ad hoc. Questi ultimi saranno condotti da un apposito dipartimento, che il corpo di polizia della Hksar si impegna a istituire sulla base dell’Articolo 16.
Di impatto ancora maggiore è l’autorità conferita al Capo esecutivo di designare – previa consultazione con il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo – tutti i giudici che, dalle Corti distrettuali alla Corte finale d’appello, sentenzieranno sui reati di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con un paese straniero (Art. 44).
Infine, va sottolineato come Pechino si riservi la facoltà di stabilire a Hong Kong un Ufficio per la salvaguardia della sicurezza nazionale (Art. 48), con possibilità di esercitare giurisdizione in sostituzione all’apparato hongkonghese in determinate circostanze. Qualora ciò dovesse accadere, l’intero processo si svolgerebbe attraverso gli organi giudiziari cinesi, secondo il codice penale della Repubblica Popolare (Artt. 56 e 57).
L’impatto della legge sul dissenso a Hong Kong
Alla luce di quanto detto, la riflessione sulla reazione del campo democratico di Hong Kong sorge spontanea.
Secondo Santelli, potrebbe accentuarsi la divisione già presente tra la frangia non violenta e moderata dei manifestanti che crede ancora alla formula “un Paese, due sistemi” e la cui priorità è la richiesta di democrazia, e la frangia più aggressiva ed estremista, convinta che solo l’indipendenza dalla Cina potrebbe garantire la libertà di Hong Kong.
La prima, complici l’accresciuto timore di ripercussioni e il senso di impotenza nei confronti di Pechino, potrebbe scegliere essere scoraggiata dallo scendere in strada. Lo scioglimento del partito pro-democrazia Demosistō, avvenuto poche ore dopo l’emanazione della legge, potrebbe esserne un esempio.
This morning we received and accepted the departure of @joshuawongcf, @nathanlawkc, @jeffreychngo and @chowtingagnes. After much internal deliberation, we have decided to disband and cease all operation as a group given the circumstances. pic.twitter.com/2kmg0ltniO
— Demosistō 香港眾志 😷 (@demosisto) June 30, 2020
La seconda invece potrebbe anche essere spinta ad alzare ulteriormente il livello di aggressività, con conseguente aumento degli scontri con la polizia. Solamente poche ore dopo l’emanazione della legge sulla sicurezza un uomo è stato arrestato per la detenzione di una bandiera indipendentista. Circa 370 persone hanno poi subito lo stesso trattamento durante le manifestazioni del primo luglio, già bandite dal governo locale sulla base delle normative che impongono il distanziamento sociale.
#BREAKING: Around 370 arrests, including 10 (6M&4F) for breaching #NationalSecurityLaw, have been made today. A total of 7 officers were injured on duty. Among the serious injuries, one was stabbed by a rioter with a dagger and three were hit by a rioter driving a motorcylce.
— Hong Kong Police Force (@hkpoliceforce) July 1, 2020
L’ipotesi di Santelli è infine supportata dal sondaggio per Reuters a cura di Mang e Chow, che nota come nonostante l’elevato malcontento verso l’operato di Xi, il numero di coloro che si schierano a favore del movimento pro-autonomia sia calato tra marzo e giugno (dal 40 al 34%), a fronte di un aumento dei sedicenti contrari (da 21 a 28%).
La risposta della comunità internazionale
Quanto al piano internazionale, le reazioni sono state prevedibilmente negative. Alla Camera dei Comuni, il premier inglese Boris Johnson ha riferito come l’imposizione della nuova legge rappresenti una “chiara e severa infrazione della dichiarazione congiunta sino-britannica” in quanto “vìola l’autonomia della regione ed è in conflitto con la Legge Fondamentale di Hong Kong”. Johnson ha aggiunto che il Regno Unito manterrà le promesse precedentemente fatte ai cittadini del Porto Profumato, creando un percorso per l’asilo e la cittadinanza di 3 milioni di hongkonghesi. Nonostante il governo cinese sia fortemente indispettito da quella che valuta come un’intromissione in questioni prettamente domestiche, Londra ha poche possibilità concrete di influenzare realmente gli sviluppi nella ex-colonia. La minaccia di un intervento diretto sarebbe inverosimile, e il peso della propria economia permetterebbe comunque a Pechino di restare virtualmente illesa in caso di sanzioni che, comunque, potrebbero portare a ritorsioni costose anche per il Regno Unito.
Anche Taiwan, che la Repubblica Popolare Cinese non riconosce e reclama come propria parte integrante, darà asilo ai cittadini di Hong Kong attraverso un neo-istituito ufficio per assistere e accogliere i rifugiati della Hksar. La Presidentessa Tsai Ing-wen, dando pieno supporto ai cittadini di Hong Kong, ha ribadito l’insostenibilità del principio “un paese due sistemi” – che la Cina vorrebbe presto imporre anche a Taiwan.
L’Unione Europea, solitamente poco esposta in questioni domestiche riguardanti paesi esteri, ha commentato in maniera critica la mossa di Pechino. La Presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha riportato la seria preoccupazione da parte degli Stati membri, i quali stanno discutendo un’eventuale risposta con gli alleati internazionali. Una risoluzione del Parlamento Europeo invita invece i 27 ad adottare sanzioni e congelare gli asset degli ufficiali che implementano leggi contro i diritti umani.
La reazione statunitense è infine forse la più drastica. La Camera ha passato un disegno di legge per penalizzare le banche che fanno affari con ufficiali che impelementano la nuova legge, mentre l’amministrazione Trump ha ritirato lo status commerciale preferenziale di Hong Kong, cercando di colpire la Cina tramite la destabilizzazione di uno dei suoi maggiori poli finanziari. Il Segretario di Stato Mike Pompeo ha inoltre definito un “oltraggioso affronto a tutte le nazioni” l’Articolo 38 della legge sulla sicurezza, che ne sancisce l’applicabilità a reati commessi al di fuori di Hong Kong, anche da parte di non-residenti. Ancora, l’ambiguità del testo rende difficile capire se la norma sia effettivamente rivolta ai soli cittadini della Cina continentale, o a quelli di tutto il mondo.
Uno sguardo al futuro
Realisticamente è difficile immaginare che pressioni internazionali, spesso deboli e frammentate, così come quelle domestiche, sempre più fiaccate dalla censura del regime, riusciranno a invertire la rotta. Avviato durante accordi sino-britannici del 1984, il processo che porterà alla definitiva cessione di Hong Kong alla Cina, e la conseguente fine della sua autonomia, sembra rimanere irreversibile e quasi deterministico.
La nuova legge sulla sicurezza rischia di imporre grossi limiti alle libertà individuali, con pene severe per i trasgressori e un accentuato stato di sorveglianza sui cittadini. Inoltre, essa include una serie di provvedimenti a più ampio respiro, il più eclatante dei quali è l’introduzione di un programma per l’insegnamento del contenuto della legge stessa nelle scuole e attraverso i media (Art. 10).
Non si sa se nel lungo periodo Pechino riuscirà a forgiare nuove generazioni di hongkonghesi rispettosi dei valori di ordine, stabilità e sottomissione al governo centrale. Ciò che è noto tuttavia, come sottolinea Filippo Santelli, è che la vaghezza del testo in alcuni passaggi fondamentali, unita alla collocazione di uomini fedeli al regime in posizioni chiave delle istituzioni della Hksar in materia di sicurezza, consegnerà all’esecutivo cinese tutti gli strumenti necessari per usare il pugno di ferro contro l’ala più radicale dei manifestanti. È possibile che i primi arresti vengano usati per mandare un messaggio di avvertimento. Un atteggiamento più accomodante è plausibile nei confronti dei moderati – specie se questi limiteranno autonomamente l’espressione del proprio dissenso – mentre le autorità proveranno a rassicurare gli esponenti della comunità d’affari internazionale sul fatto che la legge non li riguarda.
Il destino di Hong Kong si conferma quindi, ora più che mai, sancito dalla Dichiarazione del 1984. E la Cina, che reclama piena sovranità sui suoi territori, e promuove ordine e stabilità interna rispetto a democrazia e libertà, continuerà senza tregua a perseguire l’obiettivo “Un paese, un sistema”.
Articolo realizzato in collaborazione con Sem Manna.
Un ringraziamento speciale a Filippo Santelli e Sofia Battisti per il prezioso contributo.