Lettera al Ministro per il Sud e la coesione territoriale Giuseppe Provenzano.
Gentile ministro Provenzano, ho seguito con vivo interesse le vicende che hanno rincorso le sue dichiarazioni riguardo la città di Milano e il divario tra Nord e Sud, durante il convegno “Metamorfosi” organizzato dall’Huffington Post. Consapevole che le sue parole sono state inevitabilmente fraintese e manipolate, ritengo tuttavia opportuno fare alcune considerazioni al riguardo.
L’annosa questione meridionale affligge il nostro paese dalla sua nascita, tuttavia nessun governo e nessun periodo storico sono riusciti a risolvere il divario economico e sociale che caratterizza il rapporto tra le due parti del paese. Pertanto, vorrei fornire un umile e non esaustivo contributo alla sua missione, ragionando su alcuni errori metodologici che, a mio avviso, hanno da sempre impedito la formulazione di proposte efficaci per il rilancio del territorio.
Per prima cosa, è doveroso chiarire, una volta per tutte, che l’attuale condizione del meridione non è dovuta al crudele dirigismo del Nord negli anni post-unitari. Le sempre più diffuse favole neoborboniche sono pura invenzione di qualche pseudo-accademico; una narrazione diffusa facendo leva sull’invidia sociale dovuta alle disparità tra le due Italie. La storiografia economica ci dice inequivocabilmente che la povertà del meridione è dipesa da una serie di fattori, come l’alto livello di analfabetismo e l’economia agraria arretrata che caratterizzavano il regno borbonico. Secondo i dati raccolti dalla Banca d’Italia in occasione dei 150 anni dall’unità, nel 1871 il tasso di analfabetismo in Piemonte era pari al 42,3 per cento della popolazione, mentre in Lombardia arrivava al 45,2: in nessuna regione meridionale, invece, scendeva sotto l’80 per cento della Campania. È indispensabile, quindi, affermare che se le politiche economiche dello stato italiano non hanno mai favorito la crescita del meridione, non hanno però causato l’impoverimento della regione attraverso l’appropriazione indebita della sua ricchezza. Come afferma il professor Giovanni Federico, docente di storia economica presso l’Università degli Studi di Pisa, ne The Growth of the Italian Economy 1820-1960: nel 1861 le il Nord e il Sud d’Italia presentavano livelli di ricchezza pressoché simili ma con economie leggermente differenti. Una rete infrastrutturale più sviluppata, un’amministrazione pubblica più efficiente e un’agricoltura più moderna furono determinanti nel contribuire a due differenti tassi di crescita per il Bel paese. Lasciarsi trasportare dalle emozioni è facile, ma quasi sempre fuorviante.
Secondo punto. In merito ai report pubblicati dall’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ), ritengo estremamente erronee le considerazioni circolate in questi giorni su Milano e il divario tra Nord e Sud nei quotidiani nostrani, come ad esempio “Il Messaggero”. Nei fogli della scorsa settimana, infatti, si è riacceso il dibattito riguardo Milano e il divario tra Nord e Sud. Penso sia molto più utile riflettere sulle cause che hanno portato i 210 mila ragazzi a lasciare il mezzogiorno negli ultimi 15 anni, che tentare di calcolare gli effetti economici di tale fenomeno ed un eventuale “risarcimento” che il Centro-Nord dovrebbe al resto d’Italia. Ci si dovrebbe concentrare su ciò che spinge migliaia di persone ad emigrare ogni anno. Finché mancheranno la possibilità di realizzarsi e di vivere in una società giusta, il meridione continuerà a spopolarsi.
Per quanto quanto riguarda l’eterno dibattito sulla questione meridionale, ritengo che questo non abbia mai avuto una prospettiva di cambiamento endogeno. Tutte le ricette che sono state proposte per rilanciare il sud, infatti, hanno sempre sottinteso un massiccio intervento esterno, da parte dello stato, per ridare ossigeno a un’economia in asfissia. Un modello assistenzialista che si è sempre rivelato poco efficace; trasformando il meridione in un paziente assuefatto dalla spesa pubblica e completamente incapace di camminare con le proprie gambe. Poiché, come riportato dallo studio pubblicato nel 2017 dal Dipartimento di Economia e Statistica della Banca d’Italia: al Sud risiede un terzo della popolazione italiana, ma vi si produce un quarto del pil complessivo; vi si concentra invece quasi metà dei disoccupati italiani e i due terzi dei cittadini poveri, secondo la definizione di povertà relativa. Per citare Michele Boldrin – economista della Washington University in St. Louis e co-fondatore del movimento LiberiOltre – al Sud è sempre mancato un sentimento di “auto-propulsività”. Difficile dargli torto.
Insomma, il problema è soprattutto di matrice culturale e civile. Beppe Sala, ha recentemente dichiarato che un sindaco in una città non conta più del 10%. Ce ne siamo accorti a Roma, Napoli e in molte altre città del mezzogiorno, dove lo stato di salute di questi municipi è rimasto pressoché immutato indipendentemente dalle casacche indossate dalle giunte comunali. Penso sia proprio questo il punto, la politica non deve e non può essere la risposta. La crescita di un territorio è inevitabilmente legata alle gesta suoi cittadini. Per questo motivo, una delle poche forme di intervento pubblico accettabile è quella che insiste sul sistema scolastico e sulla cultura; non cercare di arginare le crisi sociali a colpi di spesa pubblica, poco sostenibile nel lungo periodo.
Infine, vorrei aggiungere un piccolo inciso sulla città di Milano, decantata negli ultimi giorni come una mostruosa parassita, avida di capitale umano. È inesatto, a mio avviso, rappresentare il capoluogo lombardo nelle vesti di città-stato sempre più divisa dal resto del resto del paese. Milano è una vera e propria roccaforte, l’ultimo baluardo di un’Italia che ha voluto aprirsi al mondo; la città meneghina ha accolto chiunque fosse disposto a darsi da fare e ha provato a competere con il resto del mondo. Milano non attrae, ma prende semplicemente sotto la sua ala protettrice.
Ministro, lei concorderà con me che queste sono ovvietà, ma non lo sono. O almeno non sembrano esserlo. Arrivederci.