Nel tardo pomeriggio dello scorso 18 agosto, il presidente e il suo primo ministro, Boubou Cissè, sono stati arrestati a Bamako da gruppi di soldati in rivolta e trasportati all’interno di un accampamento militare. I ribelli, autoproclamatosi “Comitato nazionale per la salvezza del popolo”, hanno dichiarato di voler riportare il Paese alla stabilità grazie a nuove votazioni: il colonnello Ismael Wague, portavoce dei golpisti, ha annunciato l’intenzione di instaurare un governo di transizione a guida militare della durata di tre anni. Il golpe in Mali fa seguito alle proteste degli ultimi mesi della popolazione maliana, scesa in piazza sotto la guida dell’imam Mahmoud Dicko per domandare profonde riforme e le dimissioni del presidente.
Nonostante i recenti sviluppi, la figura dell’ormai ex presidente Keïta non è sempre stata percepita negativamente dalla società civile: nel 2013 vinse le elezioni al ballottaggio con il 77,61% delle preferenze, grazie al grande supporto della popolazione più giovane e portando con sé grandi speranze di cambiamento per il Paese. Keïta riuscì anche ad assicurarsi un secondo mandato nel 2018, ma poco più tardi la sua popolarità iniziò a decrescere, toccando persino un magro 26,5% secondo un sondaggio del dicembre 2019. Le motivazioni principali di questo drastico calo di consensi riguardano l’inabilità del governo di gestire i principali problemi del socio-economici del Paese, tra i quali figurano la povertà endemica correlata all’insicurezza alimentare, la perdita di fiducia da parte dei cittadini nelle istituzioni statali e l’inabilità nell’affrontare le minacce securitarie. In aggiunta, una grave criticità che colpisce il Mali, e che nello specifico, ha anche avuto a che vedere con la presidenza di Keïta, è la corruzione: nel Corruption Perception Index del 2019, infatti, il Mali ha ottenuto un punteggio di 29 (in una scala da 0 a 100, dove 0 rappresenta un’alta corruzione percepita e 100 un basso livello), classificandosi come uno degli Stati con più alto livello di corruzione a livello globale. Il presidente Keïta, ad esempio, è stato accusato di brogli alle elezioni legislative tenutesi nella primavera di questo anno.
Una crisi con radici profonde: il primo golpe in Mali nel 2012
Otto anni fa il Mali stava assistendo a uno scenario tragicamente simile a quello attuale. Nel gennaio del 2012 infatti, la ribellione dei Tuareg nel nord del Paese diede inizio a una crisi intestina. I Tuareg – un gruppo etnico stanziato principalmente nel deserto del Sahara – rappresentavano la maggioranza del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla), un’organizzazione militare e politica che mira all’autodeterminazione e all’indipendenza del territorio dell’Azawad. Questi disordini aprirono la strada per l’occupazione del Mali settentrionale da parte di gruppi jihadisti un tempo alleati dei ribelli del Mnla. I ribelli e i jihadisti presero il controllo di ampie parti del nord del Mali, al confine con l’Algeria e il Niger. La ribellione sfociò in pochi mesi nella deposizione dell’allora presidente Amadou Toumani Touré, anch’egli eletto democraticamente e, proprio nel successivo vuoto di potere si fece largo la figura di Keïta. Per questi motivi, nel 2013 la Francia, sotto mandato Onu, ha dato inizio all’Operazione Serval, un intervento militare aereo volto ad allontanare gli insorti dal nord del Mali. Sebbene le truppe francesi e dell’Unione africana abbiano allontanato gli eserciti dei ribelli dal Paese, questo esito è stato pagato a caro prezzo sul versante umanitario: secondo le stime dell’Ocha e dell’Unhcr, il Mali ha dovuto fare i conti con numeri elevatissimi di sfollati interni e rifugiati.
In seguito, è stata istituita dal Consiglio di sicurezza la missione MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali), che attualmente consta di oltre 15.000 caschi blu e ha l’obiettivo di sostenere il processo politico di transizione e favorire la stabilizzazione del Paese. Un punto di svolta si è avuto nel 2015, con la firma dell’accordo di Algeri tra il governo e i ribelli Tuareg, che ha posto fine al conflitto esploso tre anni prima. Alla luce dei fatti trattati, appare chiaro come la situazione in Mali, caratterizzata da crisi e turbolenze con origini profonde, non possa essere trattata come un caso isolato e locale, ma debba necessariamente essere letta in sinergia con il caotico contesto della regione del Sahel.
Il Sahel: una polveriera pronta ad esplodere
La situazione in Mali faceva e fa parte di una crisi più ampia che caratterizza la regione del Sahel. Il Sahel consiste in una fascia di territorio dell’Africa sub-sahariana che si estende orizzontalmente tra l’Oceano Atlantico (a ovest) e il Mar Rosso (a est) e che si distribuisce tra dieci entità statali diverse: Senegal, Mauritania, Guinea Bissau, Gambia, Capo Verde, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Sudan. Nonostante l’aumento della presenza militare internazionale, la situazione di sicurezza nel Sahel si sta progressivamente deteriorando, rendendo la regione una vera e propria bomba ad orologeria. Le principali preoccupazioni per la regione riguardano tre ambiti.
Il Sahel si configura come una regione sul filo del rasoio, oggi più che mai. Proprio per questo, le dinamiche che stanno attualmente avendo luogo in Mali non sono importanti solo per il futuro del Paese, ma influenzeranno il destino dell’intera regione.