Alle ore 16:37, presso la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, esplode una bomba, la quale causa la morte di 17 persone, ferendone 88 in una terribile strage.
Al contempo esplodono altri ordigni collocati a Milano e nella Capitale, ma fortunatamente non provocano morti.
Al momento dell’accaduto, quella di Piazza Fontana è la strage più sanguinosa dell’Italia repubblicana: dalla fine della guerra non si è infatti mai verificato un evento di tale portata distruttiva.
Nemmeno i più pessimisti, però, possono immaginare che questa esplosione sarà solo il primo atto di una serie di tragici avvenimenti che strazieranno l’Italia per almeno altri 12 anni, l’inizio dei terribili anni di piombo.
La strategia della tensione.
In un mondo diviso in due blocchi, il Partito Comunista Italiano sta conquistando sempre più favori, anche grazie ai movimenti giovanili del Sessantotto.
I gruppi neofascisti sono intenzionati a fermare questa ascesa, ed hanno in mente di scatenare il terrore in tutto il Paese, compiendo una serie di attentati e facendone poi ricadere la colpa sui militanti di estrema sinistra.
Prima della bomba del 12 dicembre, nel nord Italia, ne esplodono altre 20, che hanno esiti meno tragici, ma che contribuiscono ad alimentare un sentimento di paura che, per diversi anni, sarà proprio di ogni cittadino.
L’obiettivo primario di queste organizzazioni terroristiche, fra le quali spicca Ordine Nuovo, è quello di conquistare il potere, ricorrendo addirittura, se da loro giudicato necessario, al colpo di Stato.
L’esplosione dell’ordigno e le prime indagini.
Il 12 dicembre 1969 è un venerdì, e di venerdì pomeriggio, a Milano, la Banca Nazionale dell’Agricoltura è l’unica aperta.
All’improvviso un boato assordante fa tremare il salone centrale, dove molti agricoltori si sono riuniti per concludere i loro affari come fanno ormai da anni, poi, il buio. Deve esserci per forza stata un’esplosione: qualcuno inizialmente pensa ad una caldaia, ma l’ipotesi non regge.
A provocare quel gran numero di vittime è stata una bomba, ma chi l’ha piazzata? E perché?
Sono le domande che si pongono le forze dell’ordine, che si mettono immediatamente all’opera.
Mario Merlino, infiltrato neofascista nei gruppi di estrema sinistra, e primo ad essere fermato per accertamenti, è molto abile nel depistare le indagini della Polizia, e indirizza gli inquirenti verso una pista, quella anarchica, che sembra trovare riscontro negli ambienti delle forze armate.
Il commissario Calabresi, Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda.
Ad occuparsi in prima persona delle indagini per la strage di Piazza Fontana è il commissario Luigi Calabresi, che ha avuto già in passato a che fare con i gruppi anarchici.
Calabresi convoca in questura Giuseppe Pinelli, un ferroviere anarchico, che morirà la notte tra il 15 e il 16 dicembre precipitando da una finestra al quarto piano della questura stessa, proprio durante l’interrogatorio. Le circostanze di tale morte non saranno mai chiarite.
Il 16 dicembre, Pietro Valpreda, un ballerino anche lui facente parte dei movimenti di estrema sinistra, viene riconosciuto da un tassista in un confronto in tribunale: ora è lui il principale indiziato della strage.
Valpreda è arrestato per concorso in strage, ma alcuni giornalisti, tra cui Sergio Zavoli ed Indro Montanelli, iniziano a sollevare i primi dubbi sull’effettiva colpevolezza degli anarchici.
La pista nera.
Pochi giorni più tardi, da Treviso, iniziano a giungere i primi sospetti che a compiere l’efferata strage possa essere stato qualcun altro, in particolare, le cellule venete di Ordine Nuovo.
I racconti di alcuni testimoni, tra cui un negoziante di Padova che riconosce la borsa in uso ai terroristi (qualcuno nei giorni precedenti ne aveva comprate ben quattro presso il suo negozio), uniti alla presa di posizione di intellettuali e personaggi pubblici ed alla pubblicazione di una contro-inchiesta giornalistica, “la strage di Stato”, dettagliata a tal punto da sembrare scritta da esponenti dei Servizi Segreti, scatenano l’opinione pubblica, che ora stenta a credere nella colpevolezza degli anarchici, e giudica invece molto dubbia la posizione dei neofascisti.
I neofascisti, però, secondo molti sarebbero soltanto il braccio armato di una componente deviata dei Servizi Segreti, che è considerata il mandante della strage.
Vengono indagati, a partire dal 1972, anche Franco Freda e Giovanni Ventura, estremisti di destra, ma non cadono le accuse verso Valpreda e i suoi compagni: si pensa anzi che la bomba sia frutto di una collaborazione tra anarchici e neofascisti.
L’uccisione di Calabresi e il processo.
Il 17 maggio 1972 il commissario Calabresi viene ucciso da un colpo di pistola. Calabresi è ritenuto, dagli ambienti dell’estrema sinistra, responsabile della morte di Pinelli, e la sua uccisione rappresenta, per qualcuno, una sorta di vendetta.
Secondo la magistratura a Milano non ci sono le condizioni per uno svolgimento regolare del processo, che viene dunque trasferito a Catanzaro.
Durante lo svolgimento del processo, che dura otto anni e viene più volte rinviato per motivi procedurali, si moltiplicano le stragi ad opera dei neofascisti in Italia; una delle più terribili è quella di Piazza della Loggia a Brescia.
Il processo vede imputati, per la prima volta nella storia della Repubblica, uomini dei Servizi Segreti, tra cui Guido Giannettini, ritenuto il “collante” tra i Servizi deviati e i gruppi veneti di Ordine Nuovo.
Fa scalpore il faccia a faccia durante il processo tra i più importanti politici italiani e i vertici delle forze armate, che si rinfacciano a vicenda la responsabilità di aver ostacolato le indagini sulla strage, così come fanno scalpore le fughe all’estero di due dei principali indiziati, Freda e Ventura.
Le prime sentenze e la riapertura delle indagini.
Sulla strage di Piazza Fontana la sentenza di primo grado viene emessa dal tribunale di Catanzaro il 23 febbraio 1979. Freda, Ventura e Giannettini sono giudicati responsabili della strage e condannati all’ergastolo, mentre gli anarchici sono assolti per insufficienza di prove.
Nel 1987, la Corte di cassazione assolve anche gli estremisti di destra, sempre per insufficienza di prove. Quelle indagini che sembrano ormai del tutto concluse, ripartono tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, quando il magistrato milanese Guido Salvini raccoglie le testimonianze di alcuni estremisti di destra, oltre a quelle di alcuni ex esponenti dei Servizi Segreti.
Nel 2000 si apre il processo di Milano, a seguito della testimonianza del neofascista Carlo Digilio, il quale fa i nomi di Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni e Carlo Maria Maggi, tutti esponenti veneti di Ordine Nuovo, che vengono accusati dell’organizzazione della strage.
Il processo termina nel 2005, con una sentenza della Corte di cassazione che attribuisce la responsabilità alla cellula di Ordine Nuovo guidata da Freda e Ventura, ma entrambi non possono essere condannati in quanto già assolti in precedenza.
Zorzi, Rognoni e Maggi, invece, vengono assolti; nessuno sarà mai condannato per l’esecuzione materiale.
Oggi, a distanza di quattordici anni dall’ultima sentenza, i familiari delle vittime, così come i sopravvissuti, come Fortunato Zinni ci ha raccontato, sono tuttora fortemente rammaricati a causa del fatto che nessuno sia stato condannato, ma ciononostante proseguono la loro missione, che è quella di far conoscere la verità storica dei fatti alle nuove generazioni, una verità per molti anni nascosta, riguardante delle circostanze che forse mai saranno del tutto chiarite.