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Parliamo di responsabilità: la donna in Medio Oriente e le colpe dell’Occidente

Tempo di lettura stimato: 5 min.

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Poco più di un anno fa, a giugno del 2018, è finalmente caduto il divieto di guida per le donne in Arabia Saudita. Nonostante il grande passo per questa monarchia assoluta in Medio Oriente, sono ancora molte le restrizioni imposte alle donne. Infatti, a parte le conosciute limitazioni sul vestiario, sul matrimonio e la custodia dei bambini in caso di divorzio, le donne saudite non hanno ancora diritto ad un processo equo e la loro testimonianza in tribunale vale la metà di quella di un uomo. Inoltre, hanno diritto solo alla metà dell’eredità rispetto ai loro fratelli e non hanno diritto ad aprire un conto in banca, non essendo riconosciuta loro la libertà di gestire le proprie finanze. Tuttavia, non si può dire che l’Arabia Saudita sia la sola.

Indipendenza femminile in Medio Oriente

In effetti, tutti i Paesi del Medio Oriente[1] si posizionano in basso nella classifica del Global Gender Gap Report: secondo i dati raccolti nel 2018, 13 su 17 Paesi sono ben sotto la media globale e lo Yemen, in particolare, si posiziona all’ultimo posto della classifica, a significare che l’emancipazione femminile non è ancora stata raggiunta nei più svariati ambiti. Come mai?

Molti studiosi hanno analizzato il ruolo dell’Islam quale causa principale del ritardo all’indipendenza femminile. In effetti, la religione influenza e regola molti aspetti della quotidianità in Medio Oriente. Nel 2011, lo Human Development Report delle Nazioni Unite ha considerato il Kuwait il Paese del Medio Oriente con le donne più emancipate. Infatti, nel 2012, quasi il 50% delle donne del Kuwait era pienamente integrato all’interno della classe lavoratrice, con accesso all’attività di giudici, poliziotti, guardie reali e ufficiali delle forze speciali. Legalmente, vi è tuttora piena parità di diritti civili. Nonostante ciò, possono ancora verificarsi atti discriminatori in quanto i tribunali di famiglia, per i cittadini musulmani, sono regolati dalla legge islamica.

Le credenze religiose non possono essere una spiegazione sufficiente: a parità di religione, i Paesi del Golfo si differenziano molto nel trattamento riservato alle donne. Per questo motivo, Michael Ross, professore di Scienze Politiche dell’Università di Los Angeles (UCLA), ha analizzato il ruolo che il petrolio potrebbe giocare in questo campo.

Ross si rifà alla “maledizione delle risorse” (anche detta “paradosso dell’abbondanza”). Si tratta dell’idea secondo cui i Paesi con molte risorse naturali, in questo caso il petrolio, tendano ad avere un peggiore sviluppo rispetto a Stati più poveri di risorse naturali. Com’è possibile?

Il ruolo del petrolio

Quando un Paese è ricco di petrolio e vi sono molti investimenti provenienti dall’estero per acquistarlo, il grande flusso di moneta estera aumenta il tasso di cambio reale, quindi diventa più conveniente per la popolazione acquistare beni importati. Di conseguenza, la competitività del settore manifatturiero declina. Questo fenomeno viene compensato dallo sviluppo del settore dei servizi e delle costruzioni.

Cosa c’entra tutto questo con l’emancipazione femminile? Il problema risiede nel fatto che, nei Paesi del Golfo, donne e uomini lavorano tipicamente in settori diversi, separatamente. In altre parole, da un lato il genere maschile sarà soprattutto impegnato nel settore dei servizi e delle costruzioni, in cui è necessaria la forza fisica e la capacità di relazionarsi con il pubblico. Dall’altro, le donne saranno impiegate principalmente nel settore manifatturiero, come l’industria tessile.

In un contesto economico nel quale la produzione di petrolio costituisce gran parte del PIL di un Paese, tutto ciò ha delle ripercussioni sul ruolo della donna nella società. Seguendo la logica della maledizione delle risorse, con il declino del settore manifatturiero le donne trovano meno posti di lavoro e, quelle che sono impiegate, ricevono uno stipendio più basso. Inoltre, con lo sviluppo del settore terziario, in cui sono impiegati perlopiù uomini, il loro stipendio aumenta. Di conseguenza, in generale diminuiscono gli incentivi della donna ad andare a lavorare, perché il marito guadagnerà abbastanza da sostenere economicamente la famiglia.

E quindi, nel momento in cui meno donne sono coinvolte nel mondo del lavoro, è più difficile che si istruiscano ed informino, che si mobilizzino politicamente e, di conseguenza, che si emancipino. Inoltre, esiste una forte correlazione tra istruzione e fertilità: in media, meno una donna è istruita, più è probabile che abbia figli. Perciò, sarà ancora più incentivata a restare a casa ad occuparsi della famiglia. Questo comporta l’inizio di un circolo vizioso che impedisce all’ondata di femminismo occidentale di raggiungere il Medio Oriente in maniera efficace.

Il ruolo dell’Occidente

Il petrolio è dagli anni Venti del secolo scorso il motore dell’economia mondiale e serve la nostra società attraverso uno svariato numero di funzioni, tra cui il riscaldamento, l’elettricità, il trasporto, l’industria. Il cosiddetto oro nero è diventato un fattore chiave per lo sviluppo degli Stati e, ad oggi, è la risorsa che ha più valore nel commercio mondiale: i barili di petrolio grezzo hanno raggiunto nel 2016 il valore totale di 42,2 milioni di dollari.

Attualmente, circa 90 Paesi estraggono e producono petrolio, anche se i 14 membri dell’ OPEC (Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio)[2], controllano più dell’80% dei siti di estrazione. Infatti, il Medio Oriente rimane la regione che più beneficia dall’industria petrolifera. È anche vero, tuttavia, che il consumo del petrolio è principalmente a carico di economie più sviluppate, ovvero quelle dell’OECD (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), Cina e India.

Sfatiamo il mito

L’analisi di Ross sfata un mito: la crescita economica non implica sempre progresso in tutti gli altri settori, soprattutto quello umano. Quando lo sviluppo tocca solamente il settore a prevalenza maschile, le donne sono più svantaggiate.

Alla luce di tutto ciò, è chiaro che esiste un modo per rompere il circolo vizioso che disincentiva le donne in Medio Oriente ad emanciparsi. L’Occidente può fare qualcosa. Seguendo la logica di Ross, parte del problema risiede nell’oro nero, e gli USA e l’Europa consumano la maggior parte del petrolio prodotto. Di conseguenza, se le potenze occidentali modificassero le proprie politiche energetiche, non potrebbero che esserci ripercussioni positive sulle donne in Medio Oriente. Non solo, di sicuro ne beneficerebbe anche l’ambiente, che sempre di più necessita di un allontanamento dall’uso dei combustibili fossili. Considerando che, per esempio, la politica energetica è in cima alla lista di priorità dell’Unione Europea, perché è stata ed è tuttora un elemento fondamentale per l’integrazione degli stati membri, resta da vedere come l’Occidente reagirà a queste sfide a lungo termine.

 


[1]Arabia saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Cipro, Egitto, Giordania, Iraq, Iran, Israele, Kuwait, Libano, Oman, Palestina, Qatar, Siria, Turchia, Yemen.

[2]  Algeria, Angola, Arabia Saudita, Ecuador, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Guinea Equatoriale, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela.

Francesca Squillante
Nata a Venezia 22 anni fa, mi sono laureata in Scienze Politiche all’Università Bocconi ed ora mi metto alla prova con una doppia laurea Bocconi-Sciences Po in Scienze Politiche e Affari Europei. Esistono tre modi per imparare: leggere, viaggiare e far parte di OriPo.

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