La questione del conflitto israelo-palestinese è estremamente complessa e intricata, coinvolgendo una serie di questioni politiche, storiche e territoriali. Ottant’anni di storia si intersecano nel dominio coloniale europeo, nel diritto all’autodeterminazione, di rivendicazioni religiose secolari e di influenze politiche regionali. Per capirne meglio la complessità abbiamo riassunto le tappe storiche e politiche più cruciali della sua evoluzione.
Il Sionismo
Nato come reazione all’antisemitismo, il sionismo si è identificato con il movimento fondato nel 1897 da Theodor Herzl (1860-1904), mirante alla costituzione di uno Stato sovrano in Palestina. Tuttavia, a causa di secoli di persecuzioni, era già dagli inizi del 1800 che intellettuali ebrei cercavano di teorizzare possibili configurazioni socio-politiche della comunità ebraica in Europa, discordando sul legame tra religione ebraica e quello di sovranità statale. Ai tempi, la Palestina era sotto il dominio dell’impero Ottomano e aveva una maggioranza di popolazione araba, mentre le comunità ebraiche erano una minoranza esigua, arrivando a costituire negli inizi novecento meno del 10% della popolazione
Sponsorizzati da famiglie influenti come i Rothschild, gli insediamenti ebraici iniziarono nella seconda metà dell’ottocento. Nel 1882, la prima grande migrazione ebraica (aliyah) raddoppiò la comunità ebraica palestinese. Le migrazioni successive, spinte dalla necessità di fuggire i pogrom e dai finanziamenti sionisti europei, portarono a una crescita demografica significativa. Con la terza e quarta aliyah, specialmente dalla Russia e dall’Europa orientale, emersero leader sionisti come Levi Eshkol, Nahum Goldmann, Uri Zvi Greenberg, Golda Meir e Moshe Sharett, contribuendo alla costruzione dello Stato d’Israele.
Il colonialismo britannico e la dichiarazione di Balfour
La Palestina rimase sotto il dominio degli Ottomani per 400 anni fino alla sua cessione, dopo la prima guerra mondiale, a favore del Regno Unito, precedentemente concordata nel 1916 con l’Accordo Sykes-Picot. Il 2 novembre 1917 il ministro degli Esteri britannico Arthur J. Balfour inviò a lord Rothschild una lettera con la quale il governo di Londra riconosceva il diritto degli Ebrei alla costituzione di una “sede nazionale” in Palestina. La lettera, nota in seguito come ‘Dichiarazione Balfour‘, rappresenta la pietra angolare diplomatica su cui venne eretta la costruzione politica del sionismo.
1945: l’Olocausto
Negli anni successivi al 1930 l’immigrazione ebraica aumentò notevolmente con la quinta aliyah, per via dell’alto numero di ebrei che abbandonavano la Germania a causa dell’ascesa al potere di Adolf Hitler ed in seguito alle Leggi di Norimberga. Durante la seconda guerra mondiale aumentò enormemente il numero di ebrei che cercavano rifugio in Palestina per sfuggire agli eccidi effettuati dai nazisti. Molti rifugiati ebrei dovettero entrare illegalmente in Palestina (fenomeno conosciuto come Aliyah Bet) e l’Olocausto contribuì così creare un certo imperativo morale per gli altri stati occidentali ad accettare che gli ebrei avessero un proprio Stato. All’interno dell’insediamento ebraico si crearono correnti contrapposte. Le organizzazioni ebraiche più moderate, come l’Haganah di David Ben Gurion, si limitarono agli scontri con gli arabi, mentre le organizzazioni sioniste più estremiste arrivarono ad aggredire apertamente i britannici, militari e civili. Fra queste ultime si distinsero l‘Irgun di Menachem Begin e la Banda Stern, descritte dai britannici come organizzazioni terroristiche che boicottavano la presenza inglese.
La nascita dello Stato d’Israele
Nel 1947 la Palestina si trova sotto il mandato britannico (delle Nazioni Unite, organizzazione internazionale predecessore dell’ONU) e la Gran Bretagna cerca di trovare una soluzione che eviti il predominio di una parte sull’altra, fino a giungere alla creazione di una commissione di inchiesta anglo-americana secondo cui “gli ebrei non devono dominare gli arabi e gli arabi non devono dominare gli ebrei in Palestina, la Palestina non dovrà essere né uno stato ebraico né uno stato laico, la forma di governo che alla fine dovrà essere stabilita dovrà proteggere e preservare gli interessi nella terra santa della cristianità, della fede musulmana ed ebraica”.
Iniziano inoltre le manovre per il ritiro inglese dai territori del mandato e viene adottata da parte dell’assemblea generale delle Nazioni Unite la Risoluzione n.181 sul “governo futuro della Palestina” comprendente il piano di spartizione che prevedeva la fine del mandato britannico entro il 1948, la costituzione di uno Stato palestinese e di uno Stato ebraico con un’unione economica per tutta la Palestina. Il piano concepiva la concessione del 56 per cento del territorio agli ebrei, e il resto ai palestinesi e lo stabilimento di un regime internazionale speciale per Gerusalemme, che viene costituita in corpus separatum e amministrata dalle Nazioni Unite in base a un apposito statuto.
La leadership ebraica accettò la proposta delle Nazioni Unite, e il 14 maggio 1948 David Ben Gurion, presidente dell’Organizzazione sionista mondiale e futuro primo ministro israeliano, annunciò ufficialmente l’istituzione dello Stato di Israele. I palestinesi, sostenuti dagli stati arabi, rifiutano la spartizione. Il rifiuto è inoltre stato alimentato dalla delusione per la promessa infranta dagli inglesi di creare uno Stato arabo, ricevuto in cambio del sostegno delle popolazioni arabe, guidate dallo Sceriffo della Mecca, contro l’Impero Ottomano nella seconda guerra mondiale.
La prima guerra arabo-Israeliana
La creazione di Israele scatenò l’invasione da parte degli Stati arabi contrari alla spartizione, innescata anche a causa del massacro compiuto dagli israeliani nel villaggio arabo di Deir Yassin per mano dell’Irgun. Diversi leader politici e militari arabi ritenevano che sarebbe stato piuttosto semplice sconfiggere le forze militari di uno Stato appena costituito. Tuttavia, le milizie nazionaliste israeliane riuscirono a conquistare enormi porzioni di territorio che le Nazioni Unite aveva attribuito ai palestinesi, e a sconfiggere la coalizione araba. Nel 1949, gli accordi dell’armistizio di Rodi fissarono la linea di demarcazione, rendendo lo Stato di Israele molto più esteso territorialmente di quello concepito dalla Risoluzione 181. In questa spartizione, la Giordania annetté la Cisgiordania nel 1950, mentre Gaza rimase sotto il controllo egiziano. Il 78% del territorio della Palestina mandataria andava così agli israeliani, mentre i paesi arabi non riconoscendo Israele furono in parte la causa della perdita dei territori Palestinesi originari.
La crisi di Suez del 1956
Lo Stato isralieano, forte del sostegno di inglesi e francesi, contrari alla nazionalizzazione del canale di Suez e intimoriti dall’influenza politica del pan-arabismo nazionalista di Gamal Abd el-Nasser, stipularono una collaborazione anti-araba. Il 29 ottobre del 56, l’esercito israeliano passò la frontiera con il Sinai e avanzò verso Suez, le forze egiziane furono prese d’assalto e nel giro di due giorni le truppe israeliane occuparono l’intero Sinai e la striscia di Gaza, mentre le forze anglo-francesi bloccavano entrambi gli accessi al Canale. Tuttavia, l’operazione si rivelò un fallimento principalmente a causa delle pressioni internazionali esercitate dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, costringendo gli israeliani a ritirarsi (il primo ministro russo Nikolaj Bulganin dichiarò anche la possibilità di ricorrere all’utilizzo delle armi nucleari).
1967: La guerra dei 6 giorni
Mentre Israele uscì rafforzato dalla guerra del 1956, in Palestina iniziarono a nascere movimenti di resistenza che creano reti transnazionali con i Paesi arabi, primo tra questi l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1964. L’OLP nasce con il fine politico di unire i movimenti anti-israeliani e ottenere il sostegno dei Paesi arabi. Tre anni dopo, nel 1967, le tensioni tra Israele, Egitto e Siria crescono fino allo scoppio della guerra dei 6 giorni. Nel maggio Nasser chiede il ritiro delle truppe dell’ONU dal Sinai e chiude il Golfo di al-Aqaba al traffico marittimo, preoccupando Israele per la sua sicurezza. Israele lancia un attacco preventivo nel giugno del 1967, distruggendo l’aviazione egiziana e conquistando il Sinai, la Cisgiordania e la parte orientale di Gerusalemme, affermandosi nel giro di pochi giorni come una delle potenze del Medio Oriente.
Vista la crisi, le NU sono chiamate a trovare una soluzione, nel novembre, invocando la risoluzione n.242, ma Israele non si ritira dai territori occupati. La guerra dei sei giorni porta ad una guerra di attrito lungo il Canale di Suez tra il 1967 e il 1970, all’umiliazione dei paesi arabi e l’intensificarsi delle attività militari dell’OLP. Si conferma inoltre un forte e definitivo ad un allineamento bipartisan tra Washington e Tel Aviv.
1973: La Guerra dello Yom Kippur
La stagione di scontri tra Israele e i vicini arabi continuarono con la guerra del Yom Kippur nel 1973. Ai tempi Sadat mirava a recuperare il Sinai e dimostrare la parità delle forze egiziane rispetto a Israele. L’attacco a sorpresa durante la festività ebraica inizialmente sorprende Israele, che subisce sconfitte senza precedenti. Tuttavia, a metà ottobre, sfruttando la sua superiorità organizzativa e tecnologica, Israele passò alla controffensiva, attraversando il Canale di Suez e minacciando sia Damasco che il Cairo, portando così alla necessità di un cessate il fuoco.
La vicenda ebbe un’enorme ripercussione in Occidente, causando una crisi economica e petrolifera senza precedenti e smuovendo le diplomazie. Henry Kissinger, allora Segretario di Stato degli Usa, negoziò con Leonid Breznev (all’epoca segretario generale del partito comunisata dell’Unione Sovietica) per ottenere una risoluzione al Consiglio di Sicurezza che instauri una forza di interposizione, ma Israele continuava ad avanzare. La crisi si risolse quando le forze israeliane interrompero le operazioni, anche grazie all’enorme sforzo di Kissinger nel convincere il governo israeliano e quello egiziano a ritirare le proprie truppe armate. La crisi si concluderà definitivamente 6 anni dopo con gli accordi di Camp David. Per Sadat, la guerra ha un risultato non del tutto negativo poiché dimostra la capacità operativa delle forze armate egiziane e avvicina l’Egitto all’Occidente, diventando un alleato degli Stati Uniti e ponendo le basi per l’inizio della normalizzazione con Israele.
Gli Accordi di Camp David
Il 17 settembre 1978 l’amministrazione di Jimmy Carter strinse gli accordi di Camp David, in cui si stabilisce il ritiro definitivo di Israele dal Sinai a due condizioni, demilitarizzazione e supervisione di una forza multinazionale. Iniziò così la normalizzazione con il primo vicino arabo: Sadat si recò a Tel Aviv, diventando il primo leader arabo a parlare al parlamento israeliano e ad aprire le relazioni con Israele. Nel 1981 Sadat verrà assassinato da parte dei Jihadisti come conseguenza dell’accordo con Israele.
L’attivismo militante dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e la figura di Yasser Arafat
Dopo la guerra dei 6 giorni, emergono diverse organizzazioni politico-militari, affermandosi come principali rappresentanti della causa palestinese. Questi gruppi armati non riconoscono il diritto ad esistere dello Stato d’Israele e hanno come obiettivo la sostituzione di quest’ultimo con uno Stato Palestinese tramite la lotta armata.
La principale organizzazione palestinese dell’epoca è Fatah, guidata da Yasser Arafat ed entrata a far parte dell’OLP nel 1967. Nel 1968, le forze armate israeliane (IDF) lanciano un’offensiva contro la base operativa di Fatah a Karameh, un villaggio giordano al confine con la Cisgiordania occupata. L’operazione militare riesce a scacciare i miliziani dalla frontiera e li costringe a ritirarsi all’interno dei confini del Regno di Giordania. Sebbene lo Stato Ebraico abbia vinto la battaglia, la resistenza posta dai palestinesi aumenta significativamente la popolarità di Arafat. Questa vittoria mediatica gli garantisce la presidenza dell’OLP, che a quel punto assume un carattere nettamente più rivoluzionario e diventa un centro di coordinamento per tutte le organizzazioni palestinesi.
Da questo momento in poi gli atti di terrorismo diventano un elemento sempre più dominante della strategia palestinese, sia sul territorio israeliano che all’estero. Durante la guerra civile libanese del 1975-1990, frutto delle tensioni religiose interne al Paese, l’OLP si schiera dalla parte della fazione sunnita contro le milizie cristiano-maronite, note come Falangi e alleate di Israele. Nel 1982, l’esercito israeliano invade il Libano con l’obiettivo di allontanare l’OLP dal confine. Le IDF si spingono fino a Beirut, ponendola d’assedio, e riescono a scacciare l’OLP dal Libano tramite un accordo che prevede la loro uscita dal Paese e la successiva ricollocazione della base operativa in Tunisia, lontano dai confini israeliani. Poco dopo la partenza dell’OLP, i falangisti massacrano migliaia di civili palestinesi e libanesi sciiti in rappresaglia all’assassinio del presidente cristiano Bachier Gemayel ad opera di un nazionalista siriano. Il massacro si compie con la connivenza dell’esercito israeliano, che si ritira ufficialmente dal Libano solamente nel 2000.
Gli insediamenti nei territori occupati
A partire dagli anni ‘70 i governi israeliani iniziano ad approvare e finanziare la costruzione di insediamenti civili all’interno dei territori occupati, soprattutto nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Nel 1979 il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite condanna all’unanimità le politiche israeliane dichiarando che “le azioni israeliane atte a stabilire degli insediamenti all’interno dei territori palestinesi occupati dal 1967 non hanno alcuna validità legale” (Risoluzione 446). A metà degli anni ‘80, gli insediamenti israeliani contavano una popolazione di circa 150.000 coloni tra la Cisgiordania e Gerusalemme Est e circa 2.000 coloni nella Striscia di Gaza. Con tali numeri di civili israeliani all’interno dei territori occupati, si moltiplica la presenza delle IDF per proteggere i coloni dall’ostilità della popolazione locale palestinese.
La prima Intifada (1987-1993)
Le tensioni tra i palestinesi e le forze di occupazione israeliane esplodono nel 1987, sfociando nella Prima Intifada (parola araba che significa “sommossa”), una vera e propria rivolta popolare condotta tramite scioperi generali, atti di disobbedienza civile, e scontri con le autorità israeliane con pietre e molotov. L’Intifada si sviluppa in maniera spontanea senza alcun coordinamento centrale da parte dell’OLP. Il governo israeliano risponde con l’utilizzo della forza, spesso anche tramite strumenti letali. E’ in questo contesto di violenza mortale che nasce Hamas, un’organizzazione terrorista e islamista legata ai Fratelli Musulmani, il cui intento dichiarato è l’annientamento d’Israele tramite la guerra santa. Circa 200 israeliani e 2.000 palestinesi perdono la vita durante l’Intifada.
Il processo di pace israelo-palestinese: accordi di Oslo 1993
Con l’Intifada che non accenna a fermarsi, il nuovo governo laburista israeliano decide di intraprendere dei colloqui segreti ad Oslo con dei rappresentanti dell’OLP per porre fine alle violenze. Nel 1993 vengono sottoscritti gli accordi di Oslo I da parte di Arafat e del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, dando avvio al processo di pace israelo-palestinese e mettendo fine all’Intifada e portano al riconoscimento reciproco di Israele e dell’OLP. Il riconoscimento consiste rispettivamente in Israele come Stato sovrano e OLP come unica rappresentante del popolo palestinese. Sulla scia degli accordi di Oslo, nel 1994, Israele e Amman firmano un accordo di pace inaugurando relazioni diplomatiche ufficiali tra i due Paesi.
La questione territoriale e la divisione dei territori secondo Oslo
Oslo I nasce come una dichiarazione di principi e di intenti a cui dovevano fare seguito soluzioni più pratiche, sulla scia di questi nel 1995 sono stati sottoscritti gli accordi di Oslo II. Quest’ultimo successo diplomatico di Arafat ha posto le basi per la creazione di uno Stato palestinese. Infatti, gli accordi prevedono la creazione di un’autorità governativa per i territori palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, l’Autorità Palestinese, il suo riconoscimento da parte della comunità internazionale. Gli accordi prevedevano inoltre la divisione amministrativa della Cisgiordania in tre aree di competenza: l’area A amministrata unicamente dall’Autorità Palestinese (circa il 18% della Cisgiordania), l’area B sotto amministrazione congiunta israelo-palestinese (circa il 22%) e l’area C amministrata unicamente da Israele (circa il 61%). Questa suddivisione è rappresentativa della situazione sul campo negli anni ‘90 e sarebbe dovuta essere gradualmente rivista in favore di un controllo amministrativo totalmente palestinese, evoluzione che non è mai avvenuta.
La militanza di Hamas e l’assasinio di Yitzhak Rabin
Non tutte le parti in causa accolsero con favore la notizia degli accordi di Oslo. Infatti, Hamas lanciò, a partire dal 1993, una feroce campagna di attentati kamikaze contro obiettivi israeliani sia militari che civili per minare il processo di pace. In Israele, l’opposizione di destra del partito conservatore Likud condannò fermamente l’accordo e il primo ministro Rabin per averlo sottoscritto. La polarizzazione politica portò all’assassinio del premier laburista Rabin ad opera di un giovane nazionalista israeliano due mesi dopo la sottoscrizione di Oslo II.
La controversia su Gerusalemme
La strategia terrorista di Hamas spinge l’elettorato israeliano a premiare la retorica securitaria del leader del Likud, Benjamin Netanyahu, nominato primo ministro a seguito delle elezioni del 1996. Nonostante i dubbi espressi nei confronti del processo di pace, Netanyahu concluse un ulteriore accordo con Arafat nel 1998 sempre nell’ottica del processo di Oslo. Tuttavia gli scarsi progressi diplomatici costarono a Netanyahu le elezioni del 1999, vinte dalla sinistra di Ehud Barak con la promessa di accelerare le negoziazioni con i palestinesi. Nonostante le apparenti buone intenzioni, il nuovo premier si scontrò contro la spinosissima questione dello status di Gerusalemme, mai affrontata negli accordi di Oslo.
In Israele la notizia di un possibile compromesso sullo status giuridico del Monte del Tempio scatenò forti polemiche nell’opinione pubblica. Il nuovo leader di Likud, Ariel Sharon, approfittò delle tensioni per effettuare una visita volutamente provocatoria sulla spianata. La mossa di Sharon portò alla sollevazione popolare dei palestinesi, alla caduta del governo di Barak e ad elezioni anticipate nel 2001. Il Likud vinse ampiamente la tornata elettorale e Sharon venne nominato primo ministro, mentre iniziava la seconda Intifada.
2000: la seconda Intifada e il ritiro di Israele da Gaza
La Seconda Intifada, nota come Intifada di al-Aqsa, iniziò nel settembre 2000. La rivolta si diffuse rapidamente a Gaza e in Cisgiordania, trasformandosi in una lotta contro l’occupazione israeliana e per l’indipendenza palestinese. La repressione israeliana fu oggetto di condanna internazionale. La mancanza di progressi nel processo di pace di Oslo e le difficili condizioni di vita palestinesi furono motivi principali per questa rivolta, che portò a un assedio israeliano di Ramallah. Durante l’intifada al-Aqsa, nell’aprile del 2002 Israele lancia l’Operazione “Scudo Protettivo” per porre fine all’ondata degli attacchi e contenere gli attentati suicidi. In pochi giorni l’esercito circondò sei grandi centri palestinesi tra cui Jenin, dove si svolse la battaglia di Jenin.
Nell’ottica securitaria, Israele iniziò la costruzione del muro di separazione tra Israele e Cisgiordania per prevenire gli attentati. Inoltre nel 2005, iniziò l’attuazione del ritiro unilaterale da Gaza, senza tuttavia la rimozione dell’embargo posto all’entrata di merci e persone. Le alture del Golan, per la loro importanza strategica, e Gerusalemme Est, ritenuta parte della capitale di Israele, non sono state finora oggetto di restituzione. La seconda Intifada si protrasse fino al 2006, mentre la distensione dei rapporti tra Israele e l’Autorità Palestinese avveniva con la morte di Arafat e la malattia debilitante di Sharon.
Hamas prende il controllo di Gaza
Nel 2006 si svolsero le elezioni per il Consiglio Nazionale Plaestinese, e i risultati videro un’alta concentrazione di voti per Hamas nella Striscia di Gaza e per Fatah in Cisgiordania. Hamas vinse le elezioni, in reazione sia Usa che Ue interrompono l’invio di aiuti per la popolazione palestinese. Nel giugno del 2007, scoppiò la Battaglia di Gaza, durante la quale Hamas iniziò una guerra civile per la Striscia attaccando le posizioni di Fatah. Questo conflitto non solo portò a gravi violazioni dei diritti umani, ma causò anche la divisione del territorio in due entità de facto separate: una controllata da Hamas, che comprende la Striscia di Gaza, e l’altra governata dall’Autorità Nazionale Palestinese nella Cisgiordania. Da quel momento in Palestina non è stato più possibile organizzare elezioni a causa del profondo disaccordo tra le due fazioni.
La guerra contro Hamas
Hamas prese il controllo di Gaza sottranedolo all’Autorità Palestinese, mentre le ostilità con Israele erano ancora in corso. Di conseguenza, le autorità israeliane ed egiziane hanno posto la Striscia sotto un blocco terrestre, aereo e marittimo. Ancora oggi, Israele controlla le forniture di energia, acqua e aiuti umanitari, nonché la libertà di uscita e di entrata di tutte le vie di accesso, eccetto una sotto controllo egiziano. Dalla conquista di Gaza da parte di Hamas, ci sono stati vari conflitti sporadici tra Israele e l’organizzazione terrorista, con scambi di razzi da Gaza verso Israele e incursioni israeliane nella Striscia.
Gli scontri del 2021 e il ritorno di Netanyahu
Durante gli scontri con Hamas del 2021, per la prima volta nella storia di Israele, cittadini arabo-israeliani si riversarono per le strade di alcune città, scontrandosi con le forze di polizia e prendendo di mira le proprietà dei loro vicini ebrei, in solidarietà con i palestinesi. Gli arabi, infatti, costituiscono il 20% della popolazione israeliana.
A seguito delle elezioni del 2022, Netanyahu viene rieletto e costituisce un nuovo governo, tutt’oggi in carica, con formazioni politiche della destra ortodossa e radicale. Netanyahu è infatti primo ministro in carica quasi ininterrottamente dal 2009, fatta eccezione per una breve parentesi di circa un anno e mezzo tra il 2021 e 2022, durante la quale il Paese è stato governato da un’eterogenea alleanza di partiti, accomunati unicamente dall’opposizione a Netanyahu. I processi giudiziari per corruzione a carico del leader del Likud lo spingono a restare al potere il più possibile per godere di una parziale immunità politica. Il nuovo esecutivo infatti porta avanti una controversa riforma giudiziaria che ha diviso il Paese, minando l’indipendenza del sistema giudiziario, e spingendo masse di cittadini in strada a protestare per diversi mesi.
La situazione nella Cisgiordania occupata
Nell’attuale governo, il ministero responsabile per la polizia nazionale e la delega agli insediamenti israeliani sono a carico rispettivamente di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, due ultranazionalisti ortodossi che chiedono esplicitamente l’annessione della Cisgiordania occupata. L’orientamento politico dell’esecutivo sprona inoltre l’accelerazione della costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania ed alla legalizzazione di alcuni avamposti residenziali costruiti senza il permesso delle autorità israeliane.
Nel 2016 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato, con l’astensione degli Stati Uniti la risoluzione 2334 che condanna la pratica degli insediamenti come “una flagrante violazione del diritto internazionale”. Tuttavia, nonostante le ripetute condanne della comunità internazionale, Israele non ha mai smesso di costruire nuovi insediamenti nei territori occupati. Ad oggi, i coloni israeliani nella Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, sono più di 700.00 (UNHCR). Nel frattempo aumentano in numero e brutalità gli episodi di violenza tra i palestinesi e i coloni israeliani e gli interventi delle IDF a favore di questi ultimi, così come diventano più frequenti le violazioni israeliane dei luoghi sacri musulmani. La tensione crescente tra le due parti ha portato diversi osservatori a definire sempre più probabile l’eventualità di una Terza Intifada.
L’incursione di Hamas del 7 ottobre 2023
Esattamente a 50 anni dallo scoppio della guerra dello Yom Kippur, le Brigate Ezzedin al-Qassam di Hamas – si stima più di 1000 miliziani– hanno sconfinato nel territorio israeliano dalla Striscia di Gaza. Hamas ha sfruttato un momento di divisione politica interna e, dal punto di vista strategico, una falla nella riorganizzazione della difesa israeliana: le truppe nel sud erano infatti al di sotto della forza perché riassegnate alla Cisgiordania, lasciando i confini protetti da sistemi hi-tech e video sorveglianza. Hamas ha intenzionalmente preso di mira i civili residenti nelle comunità vicine, collocate nei kibbutz nel sud della regione del Negev, uccidendone più di mille e prendendone in ostaggio circa 200, conducendoli poi forzatamente a Gaza.
L’attacco è il più sanguinario della storia di Israele dal punto di vista delle vittime civili e ha avuto un forte impatto psicologico, mostrando inoltre la vulnerabilità dello Shin Bet, considerata una delle più avanzate intelligence mondiali. L’esercito israeliano ha ripreso il controllo della situazione sul terreno nel giro di 48 ore, soffrendo centinaia di perdite umane ed eliminando i miliziani di Hamas nei combattimenti tenutesi soprattutto in ambiente urbano.
In risposta, Israele ha lanciato su Gaza la più massiccia e violenta campagna di bombardamenti della storia del conflitto. Sebbene le autorità israeliane sostengano l’obiettivo delle incursioni sia esclusivamente Hamas, le vittime palestinesi si contano tra le migliaia, di cui circa un terzo si stima siano minori. La striscia di Gaza è infatti una delle regioni più densamente popolate del mondo (circa 2.2 milioni di persone in 365 km²) e con un’età mediana di 18 anni. I membri di Hamas e della Jihad Islamica sono soliti confondersi tra la popolazione civile, usandola come scudo umano e sfruttando zone residenziali come rifugi e magazzini di armi.
Il primo ministro Netanyahu ha dichiarato lo stato di guerra e formato un governo emergenziale di unità nazionale con alcuni leaders delle opposizioni. Nel frattempo, almeno 300.000 riservisti israeliani sono stati richiamati al servizio dell’esercito e le truppe dell’IDF si stanno preparando ad eseguire un piano di invasione terrestre. L’obiettivo dell’Operazione Spade di Ferro sembra molto più ambizioso di qualsiasi altro scontro con Hamas, potrebbe durare mesi, comporterebbe combattimenti urbani e rischi immensi per la popolazione civile di Gaza.
Nel frattempo Gaza sta rapidamente diventando un “buco infernale”, come riferito dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. I civili sono stati forzati a sposarsi verso il sud della Striscia, mentre il bilancio delle vittime è in rapido aumento e le forniture di acqua, energia e carburante sono state interrotte. Diverse agenzie internazionali indipendenti stanno accusando il governo israeliano di perseguire crimini di guerra e crimini contro l’umanità, violando, senza precedenti, il diritto internazionale umanitario.
Questa compilazione è stata scritta da Iacopo Andreone e Valentina Del Monti, nel tentativo di restituire una cornice completa al conflitto Israelo-Palestinese.