Amy Hawkins, in un recente articolo uscito su Foreign Policy, scrive “il mondo sta raccogliendo il caos che l’Impero Britannico ha seminato”, accusando il Regno Unito di essere la causa dell’instabilità a Hong Kong e in Kashmir. Su Al Jazeera, testata legata al mondo arabo, viene aggiunta la Palestina insieme alle due regioni asiatiche.
Cause Scatenanti
Il 4 giugno il capo dell’esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, ha annunciato una legge che renderebbe possibile l’estradizione nella Cina continentale.
All’inizio di agosto, il parlamento indiano ha approvato la proposta del governo di revocare lo status speciale al Kashmir, stato indiano a maggioranza musulmana rivendicato dal Pakistan. Lo status, garantito dall’articolo 370 della costituzione, dava un grande livello di autonomia alla regione.
Hong Kong
Il 9 giugno si è svolta la prima di una serie di contestazioni. A partire da luglio, le proteste si sono trasformate in manifestazioni anti-governative. I toni sono diventati sempre più accesi e violenti, da un lato e dall’altro. Migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere riforme democratiche, tra cui il suffragio universale.
Attualmente la legislatura locale è formata da 70 membri, di cui solo la metà eletti per suffragio universale. Inoltre il capo dell’esecutivo è eletto da un gruppo di 1200 persone, per lo più imprenditori e persone vicine al Partito comunista cinese.
Dopo quattro mesi di contestazioni, il 23 ottobre scorso, il governo di Hong Kong ha ritirato in via formale la legge sulle estradizioni in Cina. Gli abitanti di Hong Kong temevano che questa legge avrebbe permesso alla Cina di far scomparire qualsiasi oppositore, senza dover dare spiegazioni.
L’India contro il Kashmir
A inizio agosto, in contemporanea alla revoca dello statuto speciale, il governo di Nuova Delhi ha bloccato l’accesso a internet, alle linee telefoniche e a tutte le telecomunicazioni in Jammu e Kashmir. Non è facile quindi sapere cosa stia succedendo. Di certo si sa che per evitare lo scoppio di proteste è stato imposto un coprifuoco.
Questo però non è bastato a evitare che gli abitanti del Kashmir contestassero il provvedimento. La BBC ha diffuso un filmato delle forze dell’ordine che usano gas e lacrimogeni per far disperdere dei manifestanti. Il 16 ottobre cinque persone sono morte, tra cui due provenienti da un altro stato indiano.
Uno dei punti principali dello status speciale garantiva che solo persone nate in Kashmir potessero acquistare proprietà nella zona. Una misura per tutelare la minoranza musulmana della regione.
In ogni caso, la mossa del primo ministro Modi non è stata del tutto inaspettata. Dalla sua prima elezione, nel 2014, egli non ha mai nascosto di considerare il Kashmir un problema. Lo stato più settentrionale dell’India è infatti l’unico a maggioranza musulmana ed è al centro di una contesa col Pakistan, che dura dai tempi della rinuncia britannica all’India.
Il caos lasciato dall’Impero
Facciamo un passo indietro.
In india, nel 1947 la Gran Bretagna accetta di dividere il territorio in due nuovi paesi indipendenti: l’India, a maggioranza induista, e il Pakistan, a maggioranza musulmana. L’accordo però, non prevede alcuna soluzione per lo stato principesco del Jammu e Kashmir. Sotto la Corona Britannica, lo stato ha sempre goduto di una vasta autonomia. Era un dominio semi-indipendente, non direttamente sottoposto al controllo inglese.
In mancanza di una decisione degli inglesi, al momento di dividere il paese, sia l’India che il Pakistan reclamano l’annessione del Kashmir. Entrambi si appellano a radici culturali e religiose. Lo stato è sempre stato a maggioranza musulmana, ma con un governatore induista. Dopo una disputa militare, il Pakistan manda una milizia in Kashmir, l’India però riesce a occupare due terzi della regione. Secondo L’ONU l’ultima parola spetterebbe ai cittadini, ma ancora adesso persistono i confini del 1947.
Gli inglesi trattano in maniera simile anche l’annessione di Hong Kong.
Nel 1842, la Cina perde la prima guerra dell’oppio. Come ricompensa, concede all’Inghilterra un piccolo gruppo di isole abitate da pescatori. Sono le isole che formano l’attuale Hong Kong. Nel giro di trent’anni, la popolazione passa da 7.500 a 115.000 residenti. I confini del territorio vengono estesi a più riprese.
Sotto il dominio Britannico, la città diventa un importante centro finanziario, con un’impostazione economica aperta e fortemente capitalista.
Nel 1997, dopo anni di negoziati, Hong Kong entra a far parte della Repubblica Popolare Cinese. Va sottolineato però, che durante i quasi due secoli di dominio inglese, Hong Kong ha maturato un’identità propria. Si sono mantenute tradizioni che la Cina comunista ha cancellato dai libri di storia. Sono garantite la libertà di parola e i diritti fondamentali. Al contrario, nella Cina continentale lo stato di diritto non è garantito.
Come già accaduto in Kashmir, l’Inghilterra non si preoccupa delle conseguenze e permette l’annessione. Le differenze storiche e culturali tra le due regioni sono tuttavia evidenti.
Le autonomie di Hong Kong e del Kashmir sono in teoria tutelate. La Cina ha infatti sempre promesso di governare seguendo il principio di “un paese, due sistemi”. Il Kashmir addirittura, fino ai fatti di agosto, era protetto da un articolo della Costituzione Indiana.
Negli ultimi anni però, le due regioni asiatiche hanno dovuto fronteggiare le ingerenze dei rispettivi governi centrali. Xi Jinping sta sempre più accentrando il potere nelle sue mani. Di conseguenza, il governo cinese vuole ottenere il controllo diretto su Hong Kong. La cultura e le tradizioni del Kashmir sono invece minacciate dal nazionalismo di Modi. Il primo ministro indiano vuole favorire l’assimilazione culturale, all’interno di un piano nazionalista che ha come obiettivo la creazione di un’India indipendente, unita e induista.
Sia il Kashmir che Hong Kong hanno per lungo tempo vissuto in uno stato di semi-indipendenza. Per i loro stati di appartenenza, per motivi religiosi il Kashmir e per motivi culturali Hong Kong, sono una minaccia per l’unità nazionale.
Israele, Palestina
Anche Israele e Palestina devono parte del loro conflitto al colonialismo inglese.
Dopo la prima guerra mondiale, la Gran Bretagna ottiene il mandato per governare la regione. Nel 1917 gli inglesi annunciano con la dichiarazione di Balfour l’intenzione di creare in Palestina, un focolare nazionale per dare asilo non soltanto ai pochi ebrei della Palestina, ma anche agli ebrei dispersi nelle altre nazioni. Nel 1915 tuttavia, i britannici avevano promesso la Palestina agli arabi come paese indipendente o come parte di una nazione araba. Queste due promesse sono inconciliabili e hanno come unico effetto quello di creare tensione tra due popoli già storicamente molto divisi.
Dopo la seconda guerra mondiale, con la creazione dello stato di Israele e le guerre che ne sono conseguite, la Palestina non è riuscita ad ottenere sovranità e riconoscimento da parte delle maggiori potenze occidentali. Ancora una volta però, è evidente che la Corona Britannica ha agito senza dare importanza alla storia del paese che governava.
Dopo l’epoca degli imperi
Nonostante il colonialismo sia qualcosa che appartiene ai secoli passati e oggi appaia lontano, i suoi effetti si fanno sentire ancora adesso. Le regioni più deboli continuano a subire le ingerenze delle grandi potenze. I paesi Europei non svolgono più il ruolo di protagonisti che avevano una volta, nuovi stati hanno preso il loro posto. Il colonialismo come lo conosciamo non esiste più, ma Cina, Stati Uniti, Russia continuano a sfidarsi e a dividersi il mondo in aree di influenza.