In questi termini, le organizzazioni della galassia jihadista non si sono fatte attendere. Tra queste, lo Stato islamico (Is), l’organizzazione terrorista salafita più nota al mondo, è stato il gruppo che ha più beneficiato, a livello propagandistico, della pandemia e di ciò che essa ha comportato.
Come il Covid-19 ha favorito l’avanzata jihadista
Nel marzo del 2019, con la caduta della roccaforte di Baghouz in Siria, il Califfato dello Stato islamico era stato dichiarato formalmente sconfitto. Dato il suo declino come entità territoriale, l’Is ha tuttavia puntato a costruire un Califfato virtuale, strumentalizzando e sfruttando il web per diffondere il proprio messaggio in maniera capillare su scala mondiale. Ciò ha confermato come il Web costituisca lo spazio prediletto dalle organizzazioni jihadiste per il lancio di campagne di proselitismo.
In tale contesto, numerosi studi hanno evidenziato la crescita del traffico internet verso siti e canali social utilizzati dalle organizzazioni jihadiste e un aumento esponenziale del fenomeno del cyber jihad (termine coniato per identificare le attività online pro-Is).
Inoltre, numerosi gruppi jihadisti sono stati incoraggiati dalla crisi sanitaria, traendo profitto dalle vulnerabilità degli apparati securitari occidentali dispiegati nei diversi teatri operativi. L’Is ha spinto più volte i propri seguaci a non viaggiare, facendo presumere che nel prossimo futuro le azioni terroristiche dovrebbero essere compiute perlopiù da cellule locali.
La propaganda dello Stato islamico tenderebbe dunque a minare la fiducia nei governi. Di fatto, sul piano extra-europeo spicca un incremento degli attacchi jihadisti del 37%, nel periodo tra metà marzo e metà aprile 2020, per quanto riguarda l’Africa sub-sahariana, l’Iraq e la Siria, come indicato in un report del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di giugno 2020.
Va sottolineato come oltre all’Is vi siano altri gruppi che hanno proseguito la propria attività durante la pandemia, come testimoniano le offensive di Boko Haram in Nigeria, quelle del gruppo armato Jamaat al Islam al-Muslimin (Gsim) in Mali e le campagne militari dei foreign fighters uiguri nel governatorato siriano di Idlib.
La comunicazione via Web dello Stato islamico
Grazie alle capacità tecnologiche e comunicative dei propri militanti, l’Is ha costruito e istituzionalizzato una vasta e complessa macchina propagandistica in grado di attrarre simpatizzanti in tutto il mondo. Questa campagna è attualmente veicolata da vari media center insistenti nelle province del Califfato, che si appoggiano ai cosiddetti Supporter Generated Content per la diffusione dei contenuti illeciti all’interno delle varie piattaforme di comunicazione.
Le organizzazioni islamiste stesse sono anche i produttori primari dei contenuti, creati tramite i vari media center istituiti. Tali enti hanno la possibilità di diffondere i loro prodotti per mezzo delle piattaforme succitate, e indirizzano in alcuni casi esplicite richieste di condivisione ai militanti. A loro volta, i seguaci europei ripropongono i messaggi, configurandosi come sorgente terziaria di informazioni.
La campagna propagandistica combina pubblicazioni ufficiali con contenuti non ufficiali e autoprodotti. Da un lato, per creare e diffondere tali contenuti (che includono video, audio, immagini, riviste, canzoni, anche videogiochi, ecc.), l’Is si è avvalso di strutture di comunicazione altamente professionali. Dall’altro, ha potuto contare su un gran numero di simpatizzanti che negli anni hanno prodotto e diffuso autonomamente messaggi a sostegno dell’organizzazione.
Le piattaforme social vengono utilizzate per mantenere aperta la comunicazione in tempo reale verso il proprio pubblico: Twitter, e poi Facebook, cui si aggiungono alcuni specifici programmi di “chat”, servono a lanciare nuovi prodotti tutti fruibili via rete, che siano video, giochi e musiche. Negli ultimi anni la propaganda e la comunicazione online si sono spostate in larga misura dai social media “aperti” come Twitter, ad applicazioni meno esposte come Telegram.
A tale riguardo, su questa piattaforma a differenza di altri servizi di messaggistica, gli utenti possono trarre vantaggio dai messaggi crittografati, dalle notevoli capacità di condivisione delle informazioni e dall’opportunità di pubblicare materiale in vari formati di file e salvarli internamente sulla piattaforma. Inoltre, Telegram viene generalmente criticato per la sua riluttanza a regolamentare i contenuti estremisti. Sembrerebbe possibile ipotizzare dunque che, oltre a scopi legati alla propaganda e al reclutamento, questa app sia stata utilizzata per diffondere istruzioni operative volte alla pianificazione di futuri attacchi.
Ad oggi, l’Is vanta centinaia di canali ufficiali, ma si è affiliato anche a due app di messaggistica minori e poco note: Riot e Hoop Messenger. Riot è un software pensato sia per essere usato come chat sia per permettere l’organizzazione del lavoro tra gruppi di persone (per funzionalità, è simile a Whatsapp o a Slack). Di contro l’app canadese Hoop Messenger risulta particolarmente adatta alle attività sopra descritte per via di una sua funzionalità detta “Cassaforte”, che offre uno spazio sicuro in cui è possibile proteggere le chat effettuate con altri utenti.
L’Is ha utilizzato in modo innovativo i social, poiché ha saputo impiegarli come efficaci strumenti di “storytelling”, cioè luoghi virtuali in cui i combattenti hanno raccontato le proprie storie dal campo. La loro modalità coinvolgente e soggettiva di rappresentazione ha poi favorito i comportamenti virali imitativi alla base del reclutamento.
Hacker al servizio del cyber jihad
L’Islamic State Hacking Division (Ishd) è una fusione di diversi gruppi hacker che si auto-identificano come “l’esercito digitale” dell’Is. L’organizzazione comprende quattro gruppi distinti, tra cui il Caliphate Cyber Shield (Ccs), Sons Caliphate Army (Sca), Caliphate Cyber Army (Cca) e il Kalashnikov E-Security Team (Kest).
Lo scopo dell’Ishd è quello di distruggere siti internet, dati e dispositivi dei “nemici” dell’organizzazione terroristica, nonché divulgare online “kill list” (le cosiddette “liste nere”, ossia l’elenco di bersagli da eliminare), contenenti spesso generalità di membri delle forze dell’ordine, esortando i seguaci del Califfato a colpire. Tale attività, detta doxing, è abbastanza comune fra gli artefici del cyber jihad.
Con il termine “doxing” si identifica dunque la pratica di cercare e diffondere dati sensibili e informazioni personali di un individuo al fine di esporre e ledere la sua privacy attraverso la pubblicazione degli stessi tramite siti, forum o profili social.
A marzo 2015 l’Is aveva pubblicato una “kill list” su un sito web che includeva nomi, gradi e indirizzi di 100 militari statunitensi. Nel giugno 2016, il Middle East Media Research Institute (Memri) aveva poi rivelato ai media un presunto elenco di circa 8.300 individui (fra cui 10 militari italiani) in tutto il mondo, identificati come potenziali bersagli di operazioni terroristiche.
Nel novembre 2016, a fronte della crescente strumentalizzazione del Web da parte del gruppo jihadista, alcuni membri del U.S. Cyber Command e della National Security Agency si sono organizzati nella Joint Task Force ‘ARES’, dando il via all’operazione cibernetica Glowing Symphony, conclusasi a dicembre 2019. La rivelazione è emersa grazie alla pubblicazione di documenti top secret declassificati e costituisce la prima operazione offensiva di hackeraggio rivelata dal Pentagono.
Al netto delle considerazioni sovraesposte, uno degli effetti collaterali del dramma della pandemia da Covid-19 potrebbe essere, nel prossimo futuro, quello di restituirci uno Stato islamico rinfrancato nella struttura, nell’organizzazione e nel numero di aderenti.