La questione desta non poche preoccupazioni e compromette innanzitutto il quadro economico. A meno di due anni dalle Olimpiadi di Tokyo e con livelli di turismo mai raggiunti prima, il Giappone ha un disperato bisogno di lavoratori. Lo conferma il fatto che in media chi è in cerca di occupazione ha a disposizione 1.6 posti di impiego. Considerando che dai 67 milioni dello scorso anno la forza lavoro dovrebbe crollare a 58 milioni nel 2030 (The Economist), se trascurata, la situazione non può che degenerare. Tra le varie e nefaste conseguenze, la riduzione della produttività rischia di pregiudicare la crescita economica. Uno scenario assolutamente da evitare in un Paese il cui livello di debito pubblico ha raggiunto il 250% del Pil. C’è poi da fare i conti con l’insostenibilità dello Stato assistenziale, e in particolare con un sistema sanitario sempre più al verde. A impennare le spese ci pensa lo schema che permette ai pazienti di contribuire alle bollette mediche in maniera regressiva rispetto alla loro anzianità.
Un bel grattacapo per il Primo Ministro Shinzo Abe. La sua prima risposta al declino demografico risale al 2015, quando, all’indomani dell’inizio del suo terzo mandato, il premier giapponese ha lanciato il programma “Abenomics 2.0”. Tra le direttive e gli obiettivi del progetto si inseriscono l’aumento del tasso nazionale di fertilità da 1.4 a 1.8 figli per donna e l’ampliamento dei servizi di assistenza per anziani e bambini, onde evitare che i lavoratori lascino il loro impiego per occuparsi dei propri cari. Ed è sempre in quest’ottica che lo scorso anno Abe ha istituito il “Consiglio per la pianificazione della società centenaria”: attivi e dinamici, o semplicemente giovani più a lungo, è così che il Giappone vuole i suoi anziani.
Proprio a partire dagli over 65 il governo di Tokyo può tentare di invertire la rotta. Circa il 23% della popolazione in questa fascia d’età è occupata, numero record per un Paese del G7. Molte aziende carenti in manodopera possono infatti fare affidamento sui neo-pensionati, assunti part-time o con contratti a breve termine, per svolgere mansioni simili a quelle ricoperte in passato. Forse il merito è dell’etica del lavoro per cui i nipponici sono ben noti. In ogni caso, a esultare sono innanzitutto le casse dello Stato, rifocillate di contributi. Ma tra gli altri vantaggiosi risvolti, l’anzianità porta con sé anche esperienza e capitale umano. Per di più, vari studi hanno dimostrato che il lavoro spesso alimenta la buona salute, e una popolazione in forze pare determinante per ridurre i costi dell’assistenza sanitaria. Ciò nonostante, il tassello che manca a questo puzzle è una riforma che istituisca in maniera definitiva gli incentivi a ritardare l’ingresso nel sistema pensionistico. Di fatto, per quanto la volontà di continuare a lavorare sia diffusa, in tanti settori vige ancora il pensionamento obbligatorio a 60 anni.
Nel frattempo, si muovono i primi passi per favorire l’immigrazione, da molti ritenuta una delle più efficaci soluzioni al declino demografico, nonché forse la più controversa: in uno Stato storicamente isolazionista e dalla forte identità culturale, l’arrivo di lavoratori stranieri lascia le sue impronte. D’altro canto però, l’essenza giapponese, che permea ogni dimensione sociale, non rende facile la loro integrazione e anzi, impone barriere (lingua in primis) insormontabili ai più. Ma qualcuno deve pur colmare le lacune dell’economia domestica. Ecco allora che, malgrado figurino solo come l’1% della popolazione nipponica, i lavoratori stranieri stanno aumentando in maniera esponenziale: erano 480mila nel 2008, sono 1.28 milioni oggi. Inoltre, un nuovo sistema di visti, probabilmente attivo da aprile, ammetterà centinaia di migliaia di colletti blu per dar man forte nei settori in cui la penuria di forza lavoro è più acuta. Parliamo, tra gli altri, di assistenza sanitaria, edilizia e agricoltura: una politica inedita per il Giappone, che finora ha autorizzato solo l’arrivo di lavoratori specializzati.
Un’altra chiave di svolta può essere l’aumento del tasso di partecipazione femminile, che, oltre ad alleviare la contrazione della forza lavoro, espande la riserva di talenti e abilità. L’Ocse riporta che nel 2017 il 69,4% delle donne giapponesi tra i 15 e i 64 anni era occupato, superando persino la percentuale statunitense. Un traguardo che il premier Shinzo Abe ha raggiunto soprattutto attraverso l’istituzione di asili nidi e altre strutture per l’infanzia, dato che in mancanza di un’adeguata assistenza le donne nipponiche si sono spesso trovate al bivio tra carriera e famiglia. Ciò nonostante, l’economia giapponese si può dire più inclusiva solo in apparenza. Se è vero che oggi molte donne tornano al lavoro dopo una gravidanza, è altrettanto vero che ad attenderle ci sono principalmente impieghi part-time o sottopagati. L’alto tasso di occupazione femminile maschera una cultura discriminatoria persistente che ha fatto poco o nulla per chiudere il divario retributivo tra sessi.
Le strade aperte per affrontare l’ardua sfida della società centenaria sono tante. Resta da scoprire se nei prossimi anni il Giappone imboccherà quelle giuste. Non è in ballo solo il futuro socio-economico del Paese. In caso di successo, c’è in gioco la possibilità che il modello nipponico varchi i confini nazionali e sia accolto altrove. Ad esempio a casa nostra, in un’Italia che stenta ad adattare il proprio schema economico e di assistenza sociale alle recenti dinamiche demografiche.