Quello di Silvia Romano – liberata durante la prima fase della pandemia – è solo uno dei casi più recenti di italiani rapiti all’estero, spesso in Paesi che si trovano in guerra.
Sono infatti stati diversi i nostri connazionali – spesso giornalisti o volontari – sequestrati al di fuori dei confini italiani, e nella quasi totalità dei casi si è parlato di pagamenti di riscatti per la loro liberazione (sempre con smentite da parte del Ministero degli Esteri). Ecco alcune storie.
Le “due Simone”
È il pomeriggio del 7 settembre 2004 quando le ventinovenni Simona Pari e Simona Torretta – cooperanti che lavorano per la Organizzazione Non Governativa (ONG) “un ponte per…” – vengono sequestrate in pieno centro a Baghdad a seguito dell’irruzione di un commando armato, composto da circa 20 uomini, negli uffici dell’organizzazione; assieme alle volontarie italiane, vengono fatti prigionieri anche i colleghi iracheni Raed Ali Abdul Aziz e Mahnaz Bassam, membri dell’ONG INTERSOS.
Il giorno successivo, sulle pagine web del sito “Islamic-Minbar.com”, è pubblicata la rivendicazione del rapimento, rapimento che sembrerebbe essere opera del gruppo terroristico Ansar El Zawahri (letteralmente “partigiani di El Zawahri): il gruppo non ha mai fatto parlare di sé fino a quel momento, e l’Italia non reputa attendibile tale annuncio.
Non fanno in tempo a trascorrere altri due giorni, però, che giunge l’ultimatum, sempre tramite lo stesso portale: se l’Italia non si impegnerà per liberare le prigioniere musulmane dalle carceri irachene non otterrà alcuna informazione sugli ostaggi.
Il nostro Paese non ha ancora risposto alla richiesta quando il gruppo terroristico rilancia, sempre attraverso il web, anche se stavolta il sito è diverso. Al nostro Paese è ora richiesto il ritiro delle truppe dall’Iraq; in caso ciò non avvenisse, le due cooperanti saranno sgozzate.
L’unica replica di Palazzo Chigi è una nota in cui viene ribadito il massimo impegno dell’Italia ai fini della liberazione di tutti gli ostaggi nel Paese mediorientale; il Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, invece, lancia un accorato appello per il rilascio delle due volontarie.
Il 13 settembre, il ministro degli esteri Frattini si reca in Iraq per tentare di sbloccare le trattative, ma è proprio in questo momento che iniziano i primi tentativi di depistaggio: il viceministro degli esteri dell’Iraq, infatti, ipotizza una vendita delle due cooperanti da parte dei rapitori ad un gruppo affiliato ad Al Qaeda (poco più tardi il movimento fondamentalista smentirà); dopo una decina di giorni, invece, in rete iniziano a moltiplicarsi le voci sull’uccisione delle “due Simone”, voci cui il governo italiano non dà credito, essendo le volontarie ritenute vive da più fonti.
Dopo poco meno di due settimane, un quotidiano del Kuwait annuncia che le due ragazze sono ancora vive, ma che i terroristi non sono intenzionati a mediare per liberarle; tali informazioni vengono ritenute “segnali” per i Servizi Segreti del nostro Paese.
Il 28 settembre, le cooperanti vengono liberate, così come i loro colleghi iracheni: pochi giorni più tardi il Sunday Times – citando fonti dell’intelligence italiana – dichiara che il nostro governo avrebbe pagato un riscatto pari a 4 milioni di euro, ma la Farnesina smentisce categoricamente.
Giuliana Sgrena e la morte di Nicola Calipari
Il 4 febbraio 2005 Giuliana Sgrena, scrittrice e cronista di guerra, viene rapita da un commando armato mentre si trova a bordo di un’auto in un quartiere di Baghdad: la giornalista, infatti, sta per recarsi in una moschea della capitale irachena per intervistare dei profughi di Falluja.
Dopo poche ore, il sequestro è rivendicato via web dalla Organizzazione del Jihad islamico; tali dichiarazioni vengono seguite, in un arco di tempo di 3 giorni, da un ultimatum di 72 ore al governo italiano affinché ritiri le truppe dall’Iraq e da un annuncio (che si dimostrerà infondato) di una imminente liberazione della cronista.
Mentre alcuni gruppi terroristici smentiscono il loro coinvolgimento in ciò che sta accadendo, si moltiplicano gli appelli affinché Giuliana Sgrena venga liberata: al primo, da parte del Consiglio degli Ulema sunniti, si aggiungono presto quelli del governo francese, di esponenti della Lega Araba e di giornalisti del Manifesto (colleghi della cronista stessa).
Il 16 febbraio viene diffuso – tramite l’Associated Press di Baghdad – un video in cui la cronista rivolge un disperato appello affinché il governo italiano ritiri le truppe dall’Iraq, oltre ad esortare chiunque (giornalisti compresi) a non recarsi nel Paese mediorientale.
Dopo cinque giorni, a seguito di pressioni dei servizi segreti, tutti i cronisti italiani lasciano Baghdad: l’Iraq, ora, è considerato “zona ad alto rischio”.
Il 4 marzo, dopo due settimane di alternanza tra voci che portavano a presupporre un prossimo rilascio e voci che facevano presagire il peggio, Giuliana Sgrena viene liberata, grazie soprattutto alla mediazione dei servizi segreti militari italiani.
La sera dello stesso giorno, mentre una Toyota dei servizi segreti (con a bordo, oltre alla cronista, l’agente del SISMI Nicola Calipari e l’autista Andrea Carpani) sta transitando verso un posto di blocco statunitense nei pressi dell’aeroporto della capitale irachena, dei militari statunitensi aprono il fuoco, uccidendo Calipari – che fa da scudo col proprio corpo a Giuliana Sgrena – con un colpo alla testa; la giornalista e l’autista restano feriti.
Tale vicenda crea subito forti contrasti, a livello diplomatico, fra il nostro Paese e gli USA: a molti osservatori appare non dissimile alla Strage del Cermis del 1998 (altra occasione in cui la violazione di regole da parte di militari statunitensi aveva portato alla morte di cittadini italiani).
Mario Lozano, il soldato americano addetto alla mitragliatrice che ha causato la morte di Calipari, viene incriminato dalla magistratura italiana.
Sia il governo statunitense che i sopravvissuti all’episodio forniscono le proprie versioni dell’accaduto, ma queste divergono in molti punti.
Secondo Giuliana Sgrena, il veicolo del quale anche ella stessa era a bordo viaggiava ad una velocità non superiore ai 50 chilometri orari, e nessun segnale di “alt” sarebbe stato intimato dai militari americani all’approssimarsi del posto di blocco.Secondo la versione diffusa il primo maggio dalle autorità statunitensi, la vettura viaggiava invece a circa 100 chilometri orari, ed i militari non avrebbero fatto altro che seguire la procedura prevista per tali circostanze; inoltre, nessuno era a conoscenza dell’operazione del SISMI (né dell’identità delle persone a bordo dell’auto), e quest’ultima sarebbe stata scambiata per una potenziale minaccia, poiché le autobombe erano un fenomeno piuttosto frequente.
Da un video – girato dallo stesso Lozano – e mandato in onda per la prima volta in Italia due anni più tardi, si nota come immediatamente dopo i colpi di arma da fuoco i fari dell’auto fossero accesi (differentemente da quanto affermano gli americani) e come il veicolo stesso, in base al punto d’arresto, non stesse viaggiando a velocità particolarmente elevata.
Queste tangibili prove potrebbero far pensare ad un possibile atto premeditato, dal momento che il governo statunitense era da tempo fortemente critico nei riguardi dei servizi segreti italiani e di Calipari in particolare, accusati di pagare ingenti riscatti (secondo diverse fonti, sempre smentite, 5-6 milioni di euro nel caso della Sgrena) per la liberazione dei connazionali ostaggi in Iraq; tale meccanismo, sempre a detta degli USA, non avrebbe fatto altro che alimentare i rapimenti ad opera dei gruppi terroristici.
Dall’Iraq all’Afghanistan: Daniele Mastrogiacomo
Il 5 marzo del 2007, mentre si sta dirigendo con autista ed interprete verso la città di Lashkargah (sotto il controllo talebano) dove deve intervistare, come concordato tempo prima, il mullah Dadullah, l’inviato speciale de La Repubblica Daniele Mastrogiacomo viene sequestrato insieme ai propri accompagnatori da una decina di miliziani talebani: questi ultimi, infatti, una volta bloccata l’auto, legano ed imbavagliano gli uomini a bordo.
Mastrogiacomo, che viene ripetutamente minacciato di morte dai rapitori, è stato scambiato per un agente britannico che si è introdotto in modo illegale nel loro territorio; una volta verificata la vera identità, i talebani aprono alla sua liberazione, ma chiedono in cambio (dopo tre giorni ed il trasferimento degli ostaggi in una zona al confine con il Pakistan) il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan.
La richiesta dei sequestratori viene respinta dal governo italiano, così come viene rifiutata l’ipotesi di liberare alcuni talebani reclusi a Guantanamo e nella base USA di Baghram.
Le trattative si fanno sempre più complicate, ed è così che il nostro Paese si gioca la carta Emergency: l’ONG, molto attiva nel territorio già da diversi anni, incarica dei negoziati un proprio collaboratore afghano.
In seguito ad un progressivo rallentamento delle trattative, i talebani, che già stavano manifestando la propria impazienza, sgozzano e decapitano l’autista di Mastrogiacomo di fronte agli occhi del giornalista.
L’Italia inizia a premere sul presidente afghano Karzai, affinché accetti le richieste dei talebani di liberare cinque loro membri.
Dopo alcune fasi piuttosto concitate, Daniele Mastrogiacomo viene liberato, proprio mentre vengono rilasciati anche quattro dei cinque prigionieri talebani: sono trascorse ormai due settimane dal sequestro.
Insieme all’inviato di Repubblica viene tratto in salvo anche l’interprete Ajmal, il quale, però, viene quasi immediatamente ricatturato e sarà ucciso poche settimane più tardi.
Il mediatore di Emergency, intanto, viene arrestato con l’accusa di essere il mandante del sequestro e detenuto per tre mesi, al termine dei quali verrà prosciolto da qualsiasi accusa grazie anche alle testimonianze di Mastrogiacomo, che già dal 20 marzo aveva fatto ritorno in Italia.
Secondo l’ex direttore della Stampa Mario Calabresi, l’Italia avrebbe pagato un riscatto (si ipotizza addirittura 9 milioni di euro, in aggiunta alla liberazione dei talebani) per la liberazione del cronista di Repubblica: tale notizia, però, è stata smentita sia dall’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi che dall’allora Ministro degli Esteri Massimo D’Alema.
Silvia Romano
Il 20 novembre del 2018, la ventitreenne Silvia Romano, cooperante della Onlus “Africa Milele”, viene prelevata con la forza presso un villaggio sito a circa 80 chilometri dalla capitale kenyota Nairobi da un commando di uomini armati di fucili e machete.
Trascorse poche ore dal rapimento, la polizia locale ipotizza che i rapitori possano essere criminali comuni con l’intenzione di vendere la ragazza al di fuori dei confini del Paese, probabilmente in Somalia.
Le indagini condotte dalla Procura di Roma, e pubblicate a circa un anno di distanza dal rapimento sembrano confermare la pista che parla di un trasferimento (ad opera di un gruppo islamista legato ad Al-Shabaab) della ragazza in Somalia, trasferimento che sarebbe avvenuto poco dopo il sequestro.
Nel frattempo, le autorità kenyote avevano ritrattato la propria versione iniziale, annunciando nel gennaio 2019 che la volontaria era viva e si trovava all’interno dei confini nazionali.
Le informazioni sulle condizioni della ragazza dopo lo spostamento in Somalia sono pochissime ed arrivano col contagocce: non si sa, ad esempio, in quale luogo possa essere stata reclusa per mesi, tanto che si pensa a sei abitazioni diverse nei principali centri abitati somali.
Durante l’estate 2019, il gruppo terrorista responsabile del sequestro di Silvia Romano cerca di mettersi in contatto con l’intelligence italiana; nel gennaio successivo, invece, alcuni funzionari dell’AISE (i servizi segreti italiani attivi all’estero) ricevono un video in cui la ragazza dichiara di stare bene.
L’AISE, dunque, con l’aiuto delle forze dell’ordine locali e di alcuni agenti segreti turchi, avvia il negoziato, con le trattative che entrano nel vivo a marzo-aprile del 2020, nel pieno della prima fase dell’emergenza Covid.
Le trattative hanno un buon esito e Silvia Romano viene liberata tra l’8 e il 9 maggio 2020, facendo ritorno in Italia un paio di giorni più tardi, dichiarando di sentirsi bene sia mentalmente che fisicamente.
Anche in questo caso, secondo diversi quotidiani, l’Italia avrebbe pagato un riscatto, nella fattispecie pari a 4 milioni di euro, ed anche in questo caso tali voci sono state smentite dalla Farnesina.