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Cobalto e povertà: la maledizione del Congo

Tempo di lettura stimato: 9 min.

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Uno degli aspetti meno discussi della rivoluzione digitale è la sua dipendenza da minerali e terre rare. Questi materiali, indispensabili per la fabbricazione di infrastrutture digitali e dei dispositivi ad esse collegati, hanno causato una rivoluzione nell’industria mineraria. Ciò ha portato minerali che un tempo erano considerati di poca importanza economica, ad assumere una rinnovata centralità, diventando talvolta oggetto di una feroce competizione geopolitica.

Uno di questi materiali è il cobalto. Fino a pochi anni fa considerato un sottoprodotto dell’estrazione di rame e nichel, sta velocemente diventando un materiale sempre più strategico per il suo utilizzo nelle batterie ricaricabili. Questo lo rende un componente indispensabile per qualsiasi dispositivo di elettronica di consumo. In particolare, negli ultimi anni, la produzione sempre maggiore di macchine elettriche ha provocato un ulteriore aumento richiesta di cobalto. La domanda mondiale è, infatti, cresciuta da 90mila a 127mila tonnellate tra il 2016 e il 2019, con stime che nel 2023 raggiungerà le 185mila tonnellate

Dove si trova il cobalto?

Il cobalto utilizzato per la produzione di batterie proviene per la maggior parte dalla Repubblica Democratica del Congo (RDC) che, si stima, sia responsabile per il 60% della produzione mondiale del minerale. La RDC è uno Stato dell’Africa centrale che copre una superficie pari a quella dell’Europa occidentale e ospita circa 99 milioni di abitanti. L’industria mineraria è un settore fondamentale dell’economia locale. Infatti, oltre al cobalto, il Paese è un importante produttore di più di 1100 materiali preziosi, tra cui il rame, i diamanti, il tantalio, lo stagno e l’oro. 

Nonostante le abbondanti risorse naturali presenti nel Congo lo abbiano reso, fin dalla fine dell’800, un produttore di ambite materie prime, la popolazione ne ha beneficiato ben poco. La RDC rimane oggi uno degli Stati più poveri al mondo, figurando ripetutamente agli ultimi posti delle classifiche di Indice di Sviluppo Umano e Pil pro capite. Questo anche a causa della violenza e dei regimi autoritari che caratterizzano la storia del Paese, dal regno personale di Re Leopoldo II del Belgio, istituito nel 1885, attraverso trent’anni di dittatura sotto Joseph-Désiré Mobutu, fino ai giorni nostri, con la “dinastia” dei Kabila, che ha regnato fino a quando lo scorso gennaio un politico di opposizione, Félix Tshisekedi, ha preso il potere in quello che è stato celebrato come il primo passaggio di potere pacifico nella storia post-coloniale dello Stato centrafricano.

Gli strascichi di questa storia travagliata sono ancora presenti nelle continue violenze nell’est del Paese. Le tensioni sono diretta conseguenza degli sconvolgimenti di fine anni ’90, quando la RDC affrontò due guerre che videro la partecipazione di quasi tutti gli stati della regione, ed in particolare di Uganda e Ruanda, portando dal 1997 al 2008 alla morte di oltre 5 milioni di persone.

La miniera di Kasulo. Foto di Sebastian Meyer, 2018

L’industria mineraria: tra creuseurs…

Il sistema minerario nella RDC è stato tradizionalmente dominato dai “minatori artigianali” o creuseurs. Si valuta, infatti, che questo settore desse, fino al 2007, sostentamento a circa il 20% della popolazione (corrispondente a 12.5 milioni di persone). Nell’ultimo decennio, però, i creuseurs hanno perso importanza nell’industria mineraria in seguito alla decisione del governo di affidare sempre più concessioni a grandi aziende che praticano attività estrattive a livello industriale. Un cambio di passo si è avuto, in particolare, dopo l’accordo con la Cina del 2008 che ha aperto la strada all’attuale dominazione del mercato del cobalto da parte di aziende cinesi.

Nonostante la diminuzione nella loro importanza relativa, l’attività estrattiva artigianale rimane fonte di sostentamento per molti locali. Infatti, per quanto sia difficile ottenere dati precisi sui loro numeri e le stime siano molto variabili, l’azienda leader nel campo delle materie prime Trafigura Group Ltd  ha valutato come nella sola provincia del Katanga ci siano ancora 200.000 creuseurs. Gécamines, l’azienda mineraria statale, calcola che i “minatori artigianali” producano fino al 30% del cobalto del Paese e che l’industria impieghi 170.000 persone nella sola provincia di Lualaba. 

Il settore artigianale, anche conosciuto come ASM (dall’inglese Artisanal and Small-scale Mining, o Estrazione Artigianale o di Piccola Scala), è finito sempre più sotto lo scrutinio delle ONG per le condizioni di lavoro infime che lo caratterizzano.  Oltre alla mancanza di norme di sicurezza e di attrezzature adatte, che provocano ogni anno centinaia di morti e feriti a causa del crollo dei tunnel, sono moltissimi i minori che, costretti dalla situazione economica delle loro famiglie, si trovano a lavorare in questo settore.

In particolare, l’UNICEF ha stimato che approssimativamente 40.000 bambini siano impiegati nelle miniere del Katanga meridionale, regione ricca di cobalto. I creuseurs sono inoltre esposti regolarmente alle esalazioni tossiche del prezioso minerale che, in assenza di attrezzature protettive, si ritiene provochi difficoltà respiratorie e problemi cardiaci, ma anche malformazioni e aborti spontanei nelle donne incinte, che spesso devono lavorare per sostentare le loro famiglie.

Un bambino trasporta del cobalto fuori da una miniera. Foto di Sebastian Meyer, 2018

È solo recentemente che alcune ONG si sono organizzate per fare luce su queste accuse, portando in tribunale alcune aziende leader del settore tecnologico, accusate di non applicare controlli abbastanza rigidi sulle loro filiere. Un esempio che ha destato scalpore è stata la causa intentata lo scorso dicembre da International Rights Advocates contro Apple, Google, Tesla, Microsoft, Dell e due aziende minerarie: Glencore e Zhenjiang Huayou Cobalt.

I cinque colossi hi-tech sono stati accusati di aver avuto “informazioni precise” che il cobalto usato nei loro prodotti provenisse da attività a rischio di lavoro minorile e sfruttamento e di non aver fatto niente per impedirlo. I siti estrattivi delle due aziende minerarie, che riforniscono il cobalto necessario per le batterie di telefoni e laptop attraverso il trader di commodities Umicore, avrebbero visto bambini fino a 9 anni lavorare in situazioni che li mettevano a rischio di morte o di infortuni. In un caso specifico, uno dei querelanti minorenni sarebbe caduto in un fosso, rimanendo così paralizzato, mentre lavorava come “mulo umano” trasportando materiali per 0.75 dollari al giorno. Un altro caso parla di un 12enne che, forzato ad abbandonare la scuola in seguito all’impossibilità di pagare la tassa mensile di 6 dollari, si sarebbe trovato a lavorare nella miniera di Kolwezi, una delle maggiori del Paese, morendo all’età di 15 anni dopo il crollo di un tunnel. Nessuna delle famiglie ha ricevuto compensazione al momento della pubblicazione.

In alcuni casi, il cobalto scavato in tali condizioni finisce nella catena di rifornimento globale tramite degli intermediari, o traders. Questi commercianti, che provengono sempre più frequentemente dalla Cina, comprano materiale da chiunque sia pronto a venderlo, rivendendolo poi alle compagnie minerarie. Queste, a loro volta, riforniscono le raffinerie e le fabbriche di componenti. Altre volte, come denunciato da Amnesty International, i minatori sono costretti a vendere direttamente all’operatore del sito estrattivo in cui lavorano, in un regime di monopolio e con scarso controllo dello Stato. I “minatori artigianali”, che spesso vengono pagati meno di due dollari al giorno, hanno lamentato che sia impossibile valutare i prezzi che gli vengono offerti, lasciandoli preda di truffe e sfruttamento. Infatti, le compagnie che comprano il materiale sono le stesse che controllano le attrezzature per stimare i prezzi. Inoltre, la maggior parte dei lavoratori non può permettersi un accesso ad Internet con cui controllare le oscillazioni di prezzo del materiale. 

… e grandi aziende

Le grandi aziende congolesi ed internazionali, diventate sempre più centrali nell’estrazione del cobalto nella RDC, presentano però anch’esse degli aspetti problematici.

Esse operano spesso in accordo col governo in un regime di quasi totale libertà. Caso emblematico è quello di Auguste Mutombo, direttore della ONG locale Alternatives Plus. Dopo la sua partecipazione alla già citata causa di International Rights Advocates, è fuggito dal Paese, temendo per la propria vita, in seguito alle minacce che avrebbe subito da membri delle compagnie minerarie. Mutombo, in un’intervista rilasciata a The Guardian, ha rivelato come casi di omicidio contro attivisti per i diritti umani che minacciano gli interessi economici delle grandi aziende nella regione siano purtroppo molto comuni. 

Inoltre, in seguito alle pressioni subite per “ripulire” la filiera del cobalto, le aziende e lo Stato hanno condotto una dura campagna contro l’industria dei piccoli produttori artigianali. In un’azione plateale, all’esercito è stato ordinato di sfrattare approssimativamente 10.000 creuseurs dai siti minerari di Kolwezi e Tenke Fungurume in seguito alla morte, lo scorso giugno, di 43 minatori illegali durante il crollo di un tunnel. Queste azioni spesso causano manifestazioni violente da parte dei minatori che rifiutano di andarsene, lamentando una mancanza di alternative economiche. In risposta l’esercito si macchia frequentemente di abusi, come la distruzione delle case dei minatori.

In altri casi, intere comunità sono state evacuate per evitare il fenomeno dei “minatori artigianali”. Questo è il caso del quartiere di Kasulo, vicino a Kolwezi. Qui nel 2014 un poliziotto che voleva scavare una latrina nel proprio giardino trovò una vena di cobalto. Iniziò a scavare di più e i vicini presto lo seguirono, arrivando presto a scavare tunnel sotto le strade e le case.

Un reporter del New York Times che ha visitato la cittadina nel giugno 2016 afferma che, mentre le stime ufficiali indicavano fino a 90 persone morte scavando, la cifra effettiva di incidenti potrebbe aver raggiunto i 250. Nel 2017, il governo congolese fece infine un patto con una azienda cinese che accettò di evacuare i residenti rimasti in case costruite appositamente, in cambio della concessione dell’area. Circa 600 famiglie furono trasferite e una superficie di 40 ettari è stata rasa al suolo e recintata, così da impedire l’accesso a minatori non autorizzati. Spesso però, alle famiglie trasferite vengono assegnate dalle compagnie minerarie case senza apparecchiature sanitarie adatte e senza elettricità, lasciandole isolate e senza prospettive di sostentamento.

Il quartiere di Kasulo, vicino a Kolwezi: immagini satellitari del 31 maggio 2017 (a sinistra) e del 15 giugno 2019 (a destra)

 

Un problema che è impossibile ignorare

Con l’abbandono delle fonti di energia fossili, la domanda di batterie continuerà ad aumentare, e così quella di cobalto. La società occidentale sta iniziando a prendere sempre più atto del problema grazie al lavoro di ONG locali ed internazionali che richiamano alla coscienza dei consumatori. Saranno però le aziende e lo Stato congolese a dover intraprendere azioni concrete contro il fenomeno dello sfruttamento.

Da quando nel 2016 Amnesty International ha per prima attirato l’attenzione sulla situazione delle miniere di cobalto poco è stato fatto per migliorare le condizioni di vita dei locali. Al contrario, le grandi aziende minerarie hanno puntato a dipingersi come fonte di “cobalto pulito” in antitesi ai creuseurs, che sono stati sempre più esclusi dalle attività, anche con violenza

In molti sono dell’idea che queste ritorsioni contro l’industria artigianale non risolveranno il problema. La RDC rimane uno dei Paesi più poveri al mondo e la mancanza di altre prospettive oltre all’industria mineraria continuerà a spingere le persone a scavare (e morire) alla ricerca di cobalto, come afferma il Dr. Nicholas Garrett al Wall Street Journal. L’azienda per cui lavora, RCS Global, è ingaggiata da aziende che vogliono assicurarsi della produzione etica delle materie prime che verranno utilizzate per la fabbricazione dei propri prodotti. 

Come affermato da una ricerca pubblicata sul Washington Post, l’unica soluzione è migliorare le condizioni di lavoro dei “minatori artigianali” e assicurarsi che abbiano sempre più accesso ad un mercato di compratori competitivo e regolamentato. Le condizioni di lavoro dei creuseurs sono semplicemente un riflesso della condizione socioeconomica della maggioranza della popolazione in un Paese povero e le cui élites continuano a derubare i propri concittadini di un futuro.

Giovanni Simioni
Nato nel 1999 a Milano e da sempre interessato alla politica, studio Scienze Politiche all’Università Bocconi. Sono entrato in OriPo per avere una scusa per studiare in maniera approfondita ciò che prima era solo una passione da perseguire nel tempo libero.

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