L’accoglienza dei rifugiati è indubbiamente una delle questioni che più dividono il dibattito politico. Elettoralmente costosa, eppure così umana da altre prospettive, siamo abituati a discuterne in ottica europea. In una direzione o nell’altra, i proclami dei nostri leader in merito a questo delicato tema si rincorrono l’un l’altro. Per una volta però proviamo ad adottare un punto di vista diverso. Quello dell’Uganda, che nel cuore dell’Africa delle guerre e della povertà ha aperto le sue porte. I numeri rendono chiara la dimensione del progetto di accoglienza di questo Paese: l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati nel Giugno 2018 contava 25.4 milioni di rifugiati, dei quali ben 1.4 milioni ospitati dall’Uganda (seconda solo alla Turchia che ne accoglieva 3.5 milioni).
Pare evidente che tali dati siano in primis il frutto della geografia. Questo Stato è un vicinissimo porto di approdo per le molte vittime della guerra civile nel Sud Sudan. Tanti altri invece scappano dalle violenze e dalla povertà del Burundi e soprattutto della Repubblica Democratica del Congo, dove il braccio della morte è ancor più stretto a causa di una dilagante epidemia di ebola. In questo quadro si inseriscono poi anche gli effetti del cambiamento climatico, che producono siccità e carestie sempre più frequentemente.
Circostanze simili sono ricordi vivamente impressi nella mente degli ugandesi, messi in fuga dal regime dittatoriale del generale Idi Amin negli anni ’70, nonché più recentemente dal terrore seminato dall’esercito di Resistenza del Signore. Ed è proprio dalla memoria storica che nasce la politica di accoglienza del governo, esemplificata dalle parole del Primo Ministro Ruhakana Rugunda in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato dello scorso anno: “Oggi sta a loro, domani potrebbe succedere a qualcuno di noi”.
Ma in cosa si traduce la generosità ugandese? Essa prende forma attraverso un modello di integrazione progressista, volto a conciliare interventi umanitari e di sviluppo economico. In netto contrasto rispetto ai tanti Paesi in cui i rifugiati vengono considerati innanzitutto concorrenti per posti di lavoro e risorse, ai profughi ospitati in Uganda è concessa, almeno tecnicamente, la possibilità di lavorare e di scegliere il proprio luogo di residenza. A ognuno è assegnato un appezzamento di terreno su cui coltivare e costruire una casa ed è inoltre permesso l’accesso ai sistemi sanitari e scolastici statali. Autosufficienza e resilienza, in Uganda sono queste le parole chiave della solidarietà e non investono solo i rifugiati, ma anche la società che li accoglie.
In quest’ottica, ai profughi non è attribuito lo stigma dell’onere, ma piuttosto il valore dell’opportunità. Essi rientrano a tutti gli effetti nella strategia di sviluppo nazionale, essendo membri attivi dell’economia locale. Grazie al riconosciuto diritto al lavoro, sono tanti i rifugiati che intraprendono la strada dell’imprenditoria una volta consolidatisi in Uganda: aprono negozi di frutta e verdura, sartorie, ristoranti, saloni di bellezza. In questo modo aumenta il loro senso di emancipazione e si favorisce una creazione sostenibile di posti di impiego.
Ma i profughi sono contribuenti dell’economia autoctona anche in termini di clientela: si spiegano così le molte attività ugandesi sorte in risposta al nuovo mercato. Il risultato è un continuo scambio che, ben oltre l’aspetto commerciale, promuove soprattutto l’integrazione sociale. Per di più, a dimostrazione del fatto che il progetto politico d’accoglienza ha il suo baricentro nello sviluppo a lungo termine, una legge stabilisce che il 30% degli aiuti internazionali ai territori in cui sono situati i campi profughi deve essere reindirizzato alle comunità locali circostanti.
Tuttavia, lungi dall’essere perfetta, la risposta ugandese all’emergenza umanitaria presenta luci e ombre. Spesso le buone intenzioni restano sulla carta, del resto stiamo pur sempre parlando di uno dei Paesi meno sviluppati del globo. Secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2017 il Pil pro capita in Uganda ha raggiunto la quota di appena 606$. Una povertà tale rende molto complicata l’organizzazione di servizi adeguati per i nativi, ancor prima che per i rifugiati. Servizi, come quelli ospedalieri, che i più possono raggiungere solo a piedi camminando per svariati chilometri o che, come nel caso delle scuole, vengono sollecitati eccessivamente pur essendo già precari. È difficile immaginare come i rifugiati possano conseguire una condizione di autosufficienza in mancanza di infrastrutture e mezzi assistenziali consoni alla portata richiesta.
Ma l’arrivo in massa di rifugiati mette sotto stress anche la disponibilità di risorse scarse come l’acqua, potenziando il rischio di conflitto con le comunità autoctone. A ciò si somma il fatto che i nuovi arrivati godono di appezzamenti di terreno di dimensioni progressivamente ridotte. Per patrocinare la liberalità di questo Paese africano servirebbero risorse ancor più ingenti di quelle che l’Uganda riceve attualmente. Ma in termini di aiuto umanitario sono altre le priorità della comunità internazionale, che preferisce virare sugli Stati del Nord Africa e del Medio Oriente, come Turchia, Siria e Iraq.
È innegabile: i superlativi usati non di rado per descrivere il modello di ospitalità offerto dall’Uganda eclissano le criticità e le incertezze quotidiane che tratteggiano la vita di un rifugiato in questo Paese. L’impegno che esso ha preso deve fare i conti con la concretezza delle risorse. Ciononostante l’umanità dimostrata e la volontà di costruire un progetto laddove tanti altri preferiscono chiudere gli occhi non possono passare inosservate. L’Uganda ha così poco, eppure dà così tanto.