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Che ne è stato delle proteste pre-Covid

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Appena al di là del coronavirus, le proteste. Sono queste le prime immagini della ripresa: le strade gremite degli Usa, con le rivolte innescate dalla morte di George Floyd, e quelle mai svuotate del tutto di Hong Kong, l’epifania più rappresentativa dell’esistenza, per certi versi rimossa, ante-covid 19. Se da un lato, infatti, la pandemia è stata una mannaia in grado di recidere i legami col passato prossimo, dall’altro il virus non ha estirpato le contraddizioni che hanno fatto del 2019 un anno all’insegna delle proteste di piazza. Finendo, tutt’al più, per esacerbare quei conflitti che dall’America Latina al Medio Oriente sono esplosi prima dell’emergenza pandemica, e che – lockdown permettendo – si sono riproposti in questi primi mesi del 2020. Al netto del coronavirus, che fine hanno fatto, dunque, le proteste e gli scontri del 2019? 

Cile 

È bene dirlo subito: in alcuni Stati le proteste hanno proseguito il loro corso. È il caso del Cile, dove lo scorso febbraio manifestanti anti-governativi hanno preso d’assalto l’O’Higgings Hotel. Le proteste di febbraio, e soprattutto quelle di marzo, riprendono le fila delle manifestazioni avviate ad ottobre del 2019, quando le tensioni innescate dall’aumento del costo del biglietto della metropolitana di Santiago sono esplose in una violenta sommossa, repressa nel sangue dall’esercito del presidente conservatore Sebastian Piñera. Il bilancio dello stato d’emergenza degli scorsi mesi è pesante: almeno 15 morti, oltre 2.300 feriti e un’inchiesta per violazione dei diritti umani aperta dalla procura generale dopo le brutalità delle forze dell’ordine. 

Le rivolte mostrano lo scontento dei cittadini, che protestano contro una profonda disuguaglianza economica: l’1% della popolazione detiene il 26,5% del patrimonio netto.  Disuguaglianza a cui hanno contribuito le politiche neoliberali promosse dai tempi della dittatura militare di Pinochet e di fatto conservate dai governi sia di destra che di sinistra eletti successivamente. L’arrivo del covid, d’altra parte, ha sparigliato le carte anche sul tavolo cileno: al rinvio al prossimo ottobre del referendum di modifica della costituzione concesso da Piñera dopo un insoddisfacente rimpasto di governo, hanno fatto da corollario le sommosse, mai arenatesi del tutto. Dopo diversi appuntamenti a marzo, difatti, le contestazioni hanno ripreso il loro corso ripartendo da El Bosque, un quartiere periferico di Santiago, dove lo scorso 19 maggio i residenti hanno manifestato la propria insofferenza verso il governo anche a causa della carenza di cibo derivante dall’avvento del covid, incontrando i lacrimogeni degli agenti. 

Libano

Anche il Libano ha vissuto un anno di forti turbolenze. Nel 2019 la Svizzera del Medio Oriente ha raggiunto l’apice di tollerazione, dopo anni di forte instabilità economica e di accuse di corruzione rivolte ai membri del governo. Quando a ottobre il valore della lira ha subito un drastico calo, il premier Hariri ha provato a imporre nuove tasse sui prodotti di alto consumo causando l’insurrezione della popolazione, che, messe da parte le storiche divisioni religiose, ha marciato su un fronte unico. Il 29 ottobre dopo tredici giorni di proteste pacifiche Hariri ha rassegnato le dimissioni, ma le marce non si sono arrestate. Ora Amnesty International è impegnata nelle indagini sulle potenziali violazioni di diritti umani da parte delle forze dell’ordine.

Dopo due mesi di interruzione a causa del Covid-19, a fine aprile le proteste sono nuovamente esplose in modo violento. Il nuovo governo tecnico costituito a gennaio, guidato da Hassan Diab, ex ministro dell’Educazione supportato dal movimento sciita Hezbollah, non è riuscito a far fronte all’inasprimento della crisi: dal default dichiarato a marzo il paese è sprofondato in un’emergenza grave, in cui si stima che tre quarti della popolazione soffra letteralmente la fame. Il Libano infatti ottiene i propri generi alimentari quasi esclusivamente dalle importazioni, precipitate a causa del dimezzamento del valore della lira. La popolazione inoltre è messa a dura prova dal blocco dei prelievi imposto dalle banche: secondo quanto disposto a marzo i cittadini potevano prelevare solo fino all’equivalente di 500 dollari in un mese come quota massimale. La criticità della situazione oggi ha portato i protestanti a prendere d’assalto le banche e dare fuoco a negozi e auto, oltre che a dare luogo ad attacchi alle forze dell’ordine.

Algeria 

Quel che non è riuscito al governo è riuscito al Covid-19, in Algeria, dove gli attivisti del movimento popolare hirak hanno chinato il capo ai dettami del lockdown dopo oltre un anno di manifestazioni anti-governative. Ma c’è qualcosa che non è cambiato: l’élite politico- militare che permane al potere e la repressione dei diritti civili . È per questo che tra i cambiamenti non si annovera la scomparsa del movimento di protesta, ora in fase di riorganizzazione. Le rivolte dell’hirak non si sono fermate alla destituzione del presidente Abdelaziz Bouteflika nell’aprile 2019 e non si sono arrestate neppure davanti alla pandemia: le manifestazioni iniziate nel marzo 2019 hanno rotto un’impasse durato 30 anni. 

È del 1991, infatti, la guerra civile scoppiata dopo regolari elezioni parlamentari, invalidate dall’esercito algerino per il timore che la vittoria del partito islamista si traducesse nell’instaurazione di uno stato islamico. 8 anni e 150 mila morti dopo, la situazione è rientrata con l’elezione a presidente di Bouteflika, rimasto in carica sino all’aprile del 2019, quando le sollevazioni causate dalla prospettiva di un quinto mandato governativo dopo anni di corruzione pervasiva e di repressione autoritaria hanno portato a diverse settimane di protesta e alla destituzione del presidente. 

Le elezioni del dicembre 2019, però, non hanno completato l’attesa transizione democratica: la vittoria di Abdelmadjib Tebboune, ritenuto parte di quella élite contro cui si schierano i manifestanti, ha dato nuova linfa alle proteste, spostatesi in rete con il lockdown dopo un paio di appuntamenti di piazza. In rete, tuttavia, si è spostata anche la repressione del governo, con il temporaneo oscuramento dei siti di informazione e l’arresto dei giornalisti, che ha fatto gridare alla peggiore ondata di repressione della libertà di stampa dagli anni ’90. È per questo che gli attivisti, pur confinati nelle loro abitazioni, rimangono sul piede di guerra, in attesa dell’allentamento delle misure che non sembra, al momento, nei piani di Tebboune.

Ecuador 

L’ultimo trimestre del 2019 ha visto molte città dell’Ecuador  scendere in piazza per protestare contro le nuove misure di austerity annunciate l’1 ottobre dal governo Moreno. Le misure prevedevano l’eliminazione dei sussidi sul carburante, l’aumento dei costi d’importazione e la riduzione di diversi benefit dei dipendenti pubblici. Il prezzo del diesel è immediatamente raddoppiato e l’incertezza determinata dalle misure ha portato a un’impennata del costo dei beni. Tali provvedimenti facevano parte di un accordo stipulato con il Fondo monetario internazionale (Fmi) che avrebbe consentito all’Ecuador di ricevere un prestito di 4,2 milioni di dollari. Lo Stato vive infatti da tempo una situazione di declino economico dovuto all’ingente debito accumulatosi negli anni: questi debiti nel 2019 ammontavano a circa 50 miliardi di dollari. Ma secondo i manifestanti queste nuove misure avrebbero solo accresciuto l’iniquità tra i cittadini. Con le proteste, le autostrade sono state bloccate e sono stati organizzati scioperi su tutto il territorio. Dopo due settimane di marce il Presidente Moreno ha ritirato il decreto contenente le misure di austerity reintroducendo i sussidi sul carburante.

Il Covid-19 ha particolarmente colpito l’Ecuador, con più di 44.000 casi confermati e circa 3.700 vittime ad oggi (11 giugno, nda). Le marce in strada sono ricominciate a maggio in seguito all’emanazione da parte del governo di nuove misure volte a tagliare gli stipendi dei dipendenti pubblici e a chiudere alcune aziende pubbliche. Secondo il presidente Moreno, 150.000 posti di lavoro sono stati persi durante il blocco causato dall’emergenza. Alle manifestazioni organizzate dai sindacati dei lavoratori hanno preso parte 4.000 persone, di cui la metà nella città di Guayaquil, dove ad aprile centinaia di corpi sono rimasti insepolti per giorni a causa dell’emergenza sanitaria. Al momento, diverse organizzazioni umanitarie stanno indagando per un uso eccessivo della forza da parte della polizia sui manifestanti.

Testo a cura di Sofia Sacco e Pierfrancesco Albanese

Redazione
Orizzonti Politici è un think tank di studenti e giovani professionisti che condividono la passione per la politica e l’economia. Il nostro desiderio è quello di trasmettere le conoscenze apprese sui banchi universitari e in ambito professionale, per contribuire al processo di costruzione dell’opinione pubblica e di policy-making nel nostro Paese.

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