La necessità di indire le elezioni legislative e presidenziali il prossimo dicembre e il ritiro delle forze straniere dal Paese sono stati al centro della seconda Conferenza di Berlino sulla Libia, co-organizzata dalla Germania e dalle Nazioni Unite lo scorso 23 giugno.
Il vertice, che ha seguito il format della prima Conferenza di Berlino svoltasi lo scorso gennaio 2020, ha riunito i rappresentanti della Libia e una serie di attori internazionali, tra cui Italia, Russia, Francia, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti, Turchia ed Egitto.
Alla presenza del capo del Governo libico di unità nazionale (GUN), Abdul Hamid Dbeibeh, la Comunità internazionale ha accolto con favore l’impegno del GUN di organizzare le elezioni previste per il 24 dicembre 2021, chiedendo come prima cosa il rapido ritiro dei combattenti stranieri dal Paese, senza ulteriori ritardi.
I primi risultati della Conferenza di Berlino
Alla fine dell’incontro, ne è risultato un lungo comunicato composto da cinquantotto punti, divisi in sei sezioni (introduzione, processo politico, sicurezza, riforme economiche e finanziarie, rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, seguiti), che hanno riaffermato l’importanza degli argomenti sollevati nella Prima Conferenza del 2020.
Due i punti fondamentali: riunificare tutte le istituzioni, a partire dalla Banca centrale libica (CBL) e procedere a un’equa ripartizione dei proventi petroliferi; procedere nella stesura di una roadmap per l’uscita delle forze militari straniere dal Paese nordafricano, a partire da quelle di Turchia e Russia.
Tra la prima e la seconda Conferenza di Berlino vi sono state tuttavia due differenze significative. La prima riguarda il livello dei partecipanti coinvolti. Alla scorsa Conferenza hanno partecipato capi di Stato, tra cui Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan, Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Il mese scorso, invece, la maggior parte dei partecipanti sono stati ministri degli esteri o addirittura vice ministri degli esteri.
Inoltre, la seconda Conferenza ha visto la presenza e la partecipazione del GUN, segno evidente che la Comunità internazionale riconosce quest’ultimo come il governo ufficiale della Libia. Il fatto che nessun’altra personalità politica libica di spicco sia stata invitata, incluso il generale Khalifa Haftar a capo dell’Esercito nazionale libico, evidenzia ulteriormente il riconoscimento ufficiale del GUN.
Il nodo delle forze straniere
La Turchia si è opposta con veemenza all’approccio della Comunità internazionale, poiché ritiene che le sue truppe siano state convocate dal governo legittimo della Libia a sostegno della resistenza contro il generale Khalifa Haftar. In sostanza, Ankara non riconosce che le sue truppe, schierate su richiesta del governo di accordo nazionale poi riconosciuto a livello internazionale nel 2019, possano in alcun modo essere equiparate a forze mercenarie o combattenti stranieri.
D’altro canto, a oggi in Libia, sono presenti quattro diverse truppe straniere che operano insieme all’esercito ufficiale della Turchia. In primo luogo, vi sono i mercenari ciadiani, attivi anche in Chad in opposizione al governo centrale. Questi gruppi armati paramilitari, che rappresentano una seria minaccia per il governo centrale, sono anche stati coinvolti in un’insurrezione che ha portato all’omicidio dell’allora-Presidente ciadiano, Idriss Déby Itno, lo scorso 20 aprile.
In secondo luogo, i mercenari sudanesi Janjaweed, coinvolti nei massacri in Darfur e che ora sembrerebbe si siano uniti all’esercito di Haftar. Vi è poi il Gruppo Wagner, un’organizzazione paramilitare russa, diventata negli anni uno strumento cardinale nella politica estera del Cremlino, soprattutto nella cornice della cosiddetta guerra ibrida. A oggi, Mosca nega qualsiasi coinvolgimento, nonostante le accuse statunitensi e della Comunità internazionale. Vi sono, infine, numerose milizie siriane, a sostegno di Haftar.
L’incapacità di determinare una strategia chiara riguardo la rimozione delle forze straniere potrebbe costituire un fattore di forte instabilità. La mancanza di tale chiarezza a livello internazionale ha avuto ripercussioni anche a livello locale.
Mentre la percezione generale è che la stragrande maggioranza dei libici sia d’accordo sul fatto che tutte le forze mercenarie dovrebbero lasciare la Libia, altri sono divisi sulla questione della presenza delle truppe turche, viste dalla maggior parte dei libici nella parte occidentale del Paese come dei “salvatori” che hanno fermato il bombardamento di Tripoli, durato quattordici mesi, a opera delle forze di Haftar.
Gli interessi in Libia degli Stati interventisti
Piuttosto che la fine della guerra, gli Stati interventisti si sono trincerati nel Paese e ora stanno salvaguardando i loro interessi diretti e indiretti. Questi Paesi hanno interessi profondi a vari livelli. La Turchia, ad esempio, ha investito ingenti capitali in Libia e ha siglati importanti accordi sui confini marittimi nel Mediterraneo con le autorità libiche di Tripoli. Questi sarebbero a rischio se la capitale venisse conquistata da forze ostili alla Turchia.
Gli interessi della Russia nel Paese, invece, sono di natura per lo più strategica. Il Cremlino si avvale, come summenzionato, di mercenari del gruppo Wagner per assicurarsi posizioni strategicamente importanti ed esercitare un’influenza sugli sviluppi libici, che potrà poi essere sfruttata nei negoziati internazionali. Pertanto, gli incentivi al ritiro dalla Libia non sembrano essere particolarmente elevati.
Non solo la Turchia e la Russia si trovano su fronti opposti in Libia, ma anche i Paesi europei hanno perseguito diversi interessi di politica estera nel Paese. In primo piano la Francia e l’Italia. Mentre Parigi ha promosso un’agenda antiterrorismo in Libia e in particolare nella regione del Sahel, facendo affidamento sul generale Khalifa Haftar, l’Italia ha mantenuto stretti legami con Tripoli.
Un ulteriore elemento di politica estera che differenzia la Conferenza Berlino II da Berlino I è il cambio di amministrazione alla Casa Bianca. Il governo americano si è, da tempo, focalizzato sulla lotta al terrorismo in Libia e nell’intera regione circostante, compresa la regione del Sahel. Sotto l’ex presidente Donald Trump, la politica libica del Dipartimento di Stato è stata (anche) contraddetta dalle politiche della Casa Bianca.
Mentre il Dipartimento di Stato stava lavorando a soluzioni politiche volte a stabilizzare il Paese, il Presidente Trump ha minato questi sforzi, incoraggiando Haftar. Questo disaccordo nella strategia e nel sostegno agli attori locali si è notevolmente raffreddato con l’amministrazione Biden, che si è recentemente riallineata con i suoi partner europei, in particolare la Germania, rispettando le istituzioni e i processi delle Nazioni Unite.
Le prospettive future
Indipendentemente da segnali positivi per ciò che concerne la politica estera americana ed europea, la situazione sul campo è ancora cupa. Il ritiro di militari e mercenari dal Paese è un requisito fondamentale per la stabilità del Paese e per una reale presa di potere da parte di attori politici, idealmente legittimi, e non principalmente militari.
Anche la volontà di indire le elezioni in Libia, il 24 dicembre di quest’anno, rappresenta un argomento alquanto spinoso. In primo luogo, attualmente non è possibile garantire elezioni sicure e libere, come è già stato dimostrato nelle passate tornate elettorali. In secondo luogo, non esiste attualmente alcuna base costituzionale per lo svolgimento delle elezioni. Infine, appare poco probabile che tutti gli attori libici, compresi i loro sponsor stranieri, saranno pronti ad accettare i risultati delle elezioni.