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In mare aperto: gli effetti della Brexit sul futuro del Regno Unito

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Il 2 gennaio 2021, l’edizione del The Economist esce ritraendo in copertina un soldato armato di Union Jack che da solo, su un piccolo isolotto, si trova a fronteggiare il mare aperto. L’immagine, pur se allegorica, porta un messaggio molto chiaro: con la fine del periodo di transizione e l’uscita definitiva dall’Unione Europea, il Regno Unito si trova, nel bene o nel male, da solo. E gli effetti della Brexit iniziano ad essere sempre più evidenti.

La storia è di per sé rocambolesca. Dallo storico referendum del 2016, che suggellò la risicata vittoria dei leavers con una maggioranza di 52% a 48%, sono passati cinque anni, si sono alternati tre diversi governi, sono stati bocciati tre accordi di uscita del governo May ed uno del governo Johnson, è stata prorogata varie volte la data di uscita ufficiale dall’Unione, si sono tenute elezioni politiche interne ed europee, si è passati dall’idea iniziale di una “soft Brexit” al rischio di un “no deal” per arrivare a siglare un accordo commerciale pochi giorni prima della scadenza del periodo di transizione e raggiungere, infine, una “hard Brexit”, lasciando numerose materie ancora da coprire ed uno Stato diviso tra nazioni a favore (Inghilterra e Galles) ed altre che, invece, nel referendum del 2016 avevano votato per il remain (Scozia e Irlanda del Nord).

Risultati del referendum su Brexit per regione. La scala di giallo evidenzia i voti per il “remain”, il blu quelli per il “leave”. [Crediti foto: Mirrorme22 Brythones Nilfanion, Wikimedia commons, CC BY-SA 3.0]

Vecchie divisioni, nuove fratture

La Brexit ha rappresentato un evento traumatico sotto molti aspetti. Non sono state, però, solo le relazioni internazionali ad uscirne danneggiate (soprattutto, com’è facile intuire, quelle con l’Unione Europea), ma anche quelle interne che legano le diverse nazioni che compongono il Regno Unito.

La principale linea di frattura si estende al confine con la Scozia. In questa sede è sufficiente sottolineare come, dopo il referendum per l’indipendenza della Scozia del 2014 -che ha visto una vittoria di 55% a 45% per rimanere nel regno di Sua Maestà- la situazione sia mutata dopo il referendum del 2016 sulla Brexit. La Scozia, storicamente più europeista dell’Inghilterra, ha votato nettamente a favore del remain -68% a 32%- e l’uscita dall’Unione Europea “imposta” da Londra ha ridestato, soprattutto fra i giovani, richieste di un nuovo referendum per l’indipendenza, vista come l’unico modo per tornare nel blocco dei 27 Stati membri. La tendenza è stata confermata dalle elezioni locali scozzesi del 6 maggio 2021, che hanno visto la vittoria dello Scottish National Party guidato dalla leader indipendentista Nicola Sturgeon, che ha fatto della richiesta di un nuovo referendum un suo cavallo di battaglia durante la campagna elettorale.

Spesso, però, non basta una forte volontà per far sì che qualcosa accada. La strada per l’indipendenza scozzese resta lunga e complessa, a cominciare dal premier Boris Johnson contrario ad un nuovo referendum; dovrebbe poi attraversare intricati processi di rinegoziazione per scindere un’Unione in vita dal 1707 e ridefinire completamente le regole ed il ruolo della Scozia nel mondo, fino ad ammortizzare le pesanti ricadute economiche che, secondo uno studio della London School of Economics, nel lungo periodo costerebbero tra il 6,5% e l’8,7% del Pil scozzese. L’unica certezza, attualmente, è che le relazioni tra Londra ed Edimburgo si sono irrimediabilmente deteriorate.

Il problema commerciale in Irlanda del Nord

Un’altra linea di frattura interna si trova in Irlanda del Nord o, più precisamente, nello stretto di mare che separa l’isola dalla Gran Bretagna. Il Brexit Trade Deal raggiunto a dicembre prevede l’uscita del Regno Unito dalla comunità economica europea e questo, a sua volta, presuppone che vengano imposti controlli doganali (ed eventuali tariffe) sulle merci che dal Regno Unito vengono esportate verso i paesi comunitari, come la Repubblica d’Irlanda. Ciò implicherebbe un confine “duro” tra le due parti dell’isola, l’una -l’Irlanda del Nord- appartenente al Regno Unito, l’altra -la Repubblica d’Irlanda- ancora all’interno dell’Unione Europea e del mercato unico.

Per evitare che ciò accadesse, e turbare la pace raggiunta con gli Accordi del Venerdì Santo dopo trent’anni di lotte interne tra unionisti e repubblicani (il periodo dei “Troubles”), si è optato per esternalizzare la barriera doganale nello stretto di mare che separa le due isole. Il protocollo prevede che l’Irlanda del Nord resti, di fatto, all’interno dell’unione doganale europea, ma che rimanga, allo stesso tempo, anche parte del Regno Unito. L’ambiguità di fondo sul suo status effettivo porta con sé un problema commerciale, legato ai diversi standard di prodotto tra Londra e Bruxelles: per il Regno Unito le regole sono -soprattutto in alcuni settori come il veterinario- più permissive, mentre per accedere al mercato unico i beni devono soddisfare standard molto rigidi (tanto che si parla di “Effetto Bruxelles” per indicare la tendenza mondiale a produrre merci seguendo le regole comunitarie con l’idea che, se possono accedere al mercato unico europeo, possono ragionevolmente essere esportati nel resto del mondo).

L’Irlanda del Nord si trova nel fuoco incrociato di Londra e Bruxelles: da una parte l’Unione Europea chiede controlli più stringenti per impedire l’accesso al porto di Belfast alle merci che non rispettano gli standard comunitari, causando penuria di beni nella provincia britannica; dall’altra il governo di Boris Johnson lamenta la mancanza di libera circolazione delle merci all’interno del proprio territorio, minacciando di infrangere il protocollo stipulato pochi mesi prima. Le tensioni si sono manifestate anche al G7 in Cornovaglia, ed hanno provocato minacce di una guerra commerciale a colpi di dazi –ribattezzata “guerra delle salsicce” proprio perché uno degli standard più dibattuto è quello dei controlli sulla carne macinata. Risolvere la disputa non è impossibile, e richiederebbe concessioni da entrambe le parti. La certezza, però, è che l’Irlanda del Nord non è mai stata così lontana –idealmente e giuridicamente- dalla Gran Bretagna, ed il nuovo ordine post-Brexit ha ridestato le istanze repubblicane per un’Irlanda unita sotto la stessa bandiera.

Verso il mare aperto: il progetto di una Global Britain

Prima ancora del referendum del 2016, l’idea di “Brexit” veniva accostata -dai suoi sostenitori- a quella di “Global Britain”: un Regno Unito finalmente libero dai vincoli della politica condivisa europea, proiettato verso un ruolo di potenza mondiale grazie a nuovi rapporti con gli Stati Uniti, al suo soft power ed alla possibilità di un ruolo di leadership in seno al Commonwealth of Nations, un’associazione di 54 Stati nata dalle ceneri dell’Impero Britannico. Eppure, in concreto, per anni l’idea di Global Britain è rimasta poco più di uno slogan politico.

Nel marzo 2021 si è cercato di tradurre le parole in una strategia strutturata, con la pubblicazione ufficiale del paper governativo “Global Britain in a competitive age: The Integrated Review of Security, Defence, Development and Foreign Policy”. Il documento di 114 pagine ha l’intento dichiarato di ripensare dalle fondamenta il ruolo del Regno Unito nel mondo, sottolineando i suoi punti di forza e delineando una strategia internazionale per il futuro.

I temi toccati nel Review sono molti, ma la linea di fondo è una sola: cercare di rinforzare la presenza ed il ruolo britannico a livello globale. Per riuscire si deve far leva sulla presenza nelle maggiori istituzioni internazionali (un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza ONU, G7, G8, G20, Nato…), sul grande potenziale diplomatico da un lato –sfruttando la sua rete di ambasciate e consolati, quarta al mondo per estensione- e sulla deterrenza nucleare dall’altro (viene previsto un aumento delle testate nucleari da 180 a 260 unità). Allo stesso tempo, è necessario sfruttare il soft power costruito negli anni, essendo il Regno Unito la quinta economia al mondo, una delle maggiori potenze nell’innovazione scientifica e tecnologica, nella lotta al cambiamento climatico, nella cyber-security e negli aiuti umanitari. È prevista inoltre una maggiore attenzione verso la regione Indo-Pacifica per contrastare la crescente influenza cinese e supportare le operazioni militari americane nell’area, nella cornice più ampia di un rilancio della democrazia su scala mondiale. Vengono fatti pochi riferimenti all’Unione Europea, e la cooperazione nell’area euro-atlantica è affidata soprattutto al ruolo della Nato.

È difficile prevedere quale sarà il futuro del Regno Unito fuori dall’Unione Europea. Gli effetti negativi della Brexit si sono intrecciati con i danni della pandemia da Covid-19, rendendo difficile una stima precisa delle sue ricadute economiche. Bisogna riconoscere che, senza dover raggiungere una decisione condivisa da 27 Stati, il processo decisionale si è reso più rapido. Allo stesso tempo, però, la Brexit ha ridotto il peso negoziale del paese nell’arena internazionale, ed un accordo commerciale con gli Stati Uniti sembra sempre più lontano. In un mondo sempre più pericoloso e competitivo, avere degli amici è fondamentale. Il Regno Unito, volente o nolente, presto se ne dovrà rendere conto.

*Crediti foto: Max Pixel, CC0 Public Domain
Andrea Montanari
Classe ‘00. Nato nella città di Leopardi, cresciuto in quella di Fabri Fibra, finito a scrivere di politica internazionale su OriPo per ironia della sorte. Attualmente studio relazioni internazionali in triennale alla Cattolica di Milano, nel futuro chissà. Da grande -perché a vent’anni si può ancora dire- sogno le istituzioni internazionali, per lasciare il mondo, almeno nel mio piccolo, migliore di come l’ho trovato. Inguaribile idealista, se non si fosse capito.

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