Cosa sono le catene globali del valore?
Le catene globali del valore, meglio note come GVCs (acronimo dell’inglese Global Value Chains), sono tutte le forme di attività economica in cui la produzione di un bene e/o servizio è ripartita tra diverse nazioni. Ad esempio, Apple costruisce i suoi dispositivi elettronici seguendo una struttura tipica delle GVCs: il design avviene in California, i componenti vengono prodotti in svariate nazioni, per poi essere assemblati in Cina. La possibilità di frammentare la produzione a livello globale trae origine da due fattori: il primo, tecnologico, include il miglioramento delle telecomunicazioni e il crollo dei prezzi di trasporto via nave. Il secondo è invece politico: senza libertà di movimento dei beni, nessuna azienda potrebbe investire nella produzione all’estero senza incorrere in spese esorbitanti. Se uno di questi due fattori venisse a mancare, come appena venuto nel canale di Suez, le ripercussioni sull’economia globale sarebbero molto pesanti.
Nonostante la loro diffusione, le GVCs sono molto difficili da quantificare: recentemente due economisti italiani hanno creato un algoritmo apposito. Partendo da dati sul commercio internazionale, questo permette di misurare quanto due nazioni commerciano tra di loro all’interno delle GVCs. La Banca mondiale ha quindi stimato che le catene globali del valore rappresentavano nel 2015 il 45% del commercio mondiale: l’equivalente di circa 10.7 trilioni di dollari, più di metà del Pil europeo.
Quali sono i pro: crescita e tecnologia
Oltre a essere un fenomeno preponderante, le GVCs sono oggetto di studio per il loro effetto sullo sviluppo economico e il progresso tecnologico. Secondo Carlo Altomonte, la partecipazione nelle catene globali del valore è un importante determinante di crescita per le nazioni. Simili risultati vengono presentati nel World Development Report: un aumento dell’1% della partecipazione in GVCs è associato in media a una crescita dell’1,1% del Pil pro-capite. Alle imprese facenti parte di catene globali del valore è associata una produttività maggiore, oltre che ad una crescita più marcata nel numero di impiegati.
Sembra inoltre che le GVCs possano aiutare a ridurre la disparità di genere nei Paesi in via di sviluppo. In Bangladesh, le famiglie di cui almeno un membro è stato assunto da aziende facenti parte di catene globali del valore hanno tassi di scolarizzazione più alti, oltre a migliori condizioni di salute. Più in generale, alla partecipazione in GVCs sembra associata una riduzione della povertà: parliamo di famiglie che grazie alla globalizzazione potrebbero aver superato la soglia minima di sostentamento.
Da questo insieme di risultati, sembra evidente come le GVCs possano rappresentare il futuro delle relazioni commerciali tra nazioni. Uno dei detti più diffusi riguardo alla globalizzazione, tuttavia, è che essa porta con sé vincitori e perdenti. A questi ultimi raramente giungono benefici dalla crescita commerciale, creando inevitabilmente malcontento sociale e politico.
Quali sono i contro: le diseguaglianze
Nell’introduzione abbiamo citato la Brexit come istanza anti-globalista. In effetti, sarebbe più appropriato dire che il consenso popolare che ha portato alla vittoria del Leave è figlio della globalizzazione. Gli scienziati politici Italo Colantone e Piero Stanig hanno infatti dimostrato che le contee britanniche maggiormente esposte alla competizione con Paesi manifatturieri come la Cina sono anche le stesse che hanno votato più frequentemente per il Leave. Simili risultati sono stati trovati per le elezioni presidenziali americane.
Come ci si può spiegare questo sistematico rifiuto elettorale della globalizzazione? Gli effetti positivi discussi in questo articolo sono aggregati al livello di nazioni: non tengono conto delle conseguenze redistributive dell’integrazione economica. Ad esempio, è stato dimostrato che l’apertura al commercio internazionale, soprattutto nelle nazioni che si specializzano in fasi della produzione più avanzate, diminuisce sensibilmente la domanda di lavoratori poco qualificati, deprimendo gli stipendi di larghe fasce della popolazione che quindi nella globalizzazione vedono la causa dei loro mali. Ne consegue un crescente sentimento protezionista, nostalgico di tempi migliori.
L’inattualità del protezionismo?
La soluzione alle disuguaglianze generate dalla globalizzazione potrebbe però non essere il proibizionismo. Secondo uno studio dell’Ocse, gli effetti negativi delle misure mercantiliste sono amplificati dalla presenza di GVCs. La spiegazione di questo fenomeno è molto intuitiva: più volte un bene attraversa i confini nazionali più volte verrà pagata su di esso una tariffa doganale, andando a gravare sul prezzo finale per i consumatori. Inoltre, l’imposizione di una tariffa di un bene a sua volta esportato fa ricadere un pesante onere sull’azienda esportatrice del bene finale.
Quali soluzioni?
E’ difficile proteggere i lavoratori meno qualificati, però alcune nazioni ci stanno provando. Singapore ha creato un programma di rieducazione senza precedenti: ai cittadini dell’hub finanziario e commerciale vengono offerte opportunità di apprendimento per adattarsi ai lavori del futuro. Il World Economic Forum ha proposto un’iniziativa simile, basandosi sul principio secondo il quale i cittadini devono poter aggiornare le proprie competenze alla stessa velocità con cui la tecnologia e la globalizzazione progrediscono.
Le GVCs, oramai un elemento fondante dei consumi di ogni cittadino, possono facilitare e sostenere la crescita economica nel lungo periodo solo se i loro benefici vengono distribuiti a tutta la popolazione. Per riuscire in questa ambiziosa missione, i governi devono attuare politiche lungimiranti come quelle di Singapore. Altrimenti, il sentimento protezionista che si è diffuso in America ed Europa rischia di spezzare le delicate e fondamentali GVCs.