L’antipolitica che diventa politica
Già nel 2005 iniziano a nascere i primi gruppi online “amici di Beppe Grillo”, su impulso dello stesso comico genovese: uno di questi gruppi propone, già nell’anno successivo, di dare vita a liste civiche formate secondo il metodo della democrazia diretta; un metodo inizialmente ignorato da Grillo ma che poi diventa uno dei punti fermi del movimento.
È con il cosiddetto V-day (una raccolte firme al fine di presentare una legge di iniziativa popolare) che si realizza il cambio di passo: il testo della legge, infatti, contiene alcuni temi che si ritroveranno nei punti programmatici del Movimento 5 Stelle (M5S) e che certificheranno la natura anti-casta e scarsamente garantista dello stesso, quali ad esempio il divieto di candidatura in Parlamento per i condannati anche in via non definitiva, il limite di due mandati per i parlamentari. L’iniziativa riscuote un enorme successo e, su questa scia, seguiranno giornate simili dedicate ad altri temi.
Grillo inizia a sondare il terreno politico già con le amministrative del 2008, quando le liste civiche che portano il suo nome riescono in alcuni casi ad eleggere consiglieri; poco dopo le liste “amici di Beppe Grillo” diventeranno “liste 5 stelle”, con gli astri che simboleggiano acqua pubblica, ambiente, mobilità sostenibile, connettività e sviluppo.
Nel 2009 viene quindi fondato a Milano il Movimento 5 stelle, da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, la cui Piattaforma Rousseau sarà fulcro fino al 2021 delle consultazioni online degli attivisti grillini. Il partito riscuote un enorme ed inaspettato successo alle elezioni politiche del 2013, eleggendo 109 deputati e 54 senatori.
Nella campagna elettorale, che già viene portata avanti in modo contrastante rispetto a quelle dei partiti tradizionali (divieto per i candidati di partecipare a dibattiti televisivi, che tempo dopo verrà meno, con una costante presenza dei pentastellati in TV), vengono sostenuti, oltre ai temi del V-day, quelli dell’antipartitocrazia, dell’ecologismo, dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, della diminuzione delle indennità dei parlamentari (tanto che gli eletti in Parlamento tra le sue fila vi rinunciano), della decrescita e del giustizialismo.
Quando a seguito delle elezioni politiche si profila un’alleanza col Partito Democratico (PD) guidato da Pierluigi Bersani, i capigruppo pentastellati Crimi e Lombardi comunicano al segretario dem, nell’ormai celeberrima diretta streaming, che il Movimento 5 Stelle non governerà mai se non da solo.
Con le successive politiche del 2018 cade questo paletto, in quanto si assiste alla nascita del cosiddetto “governo gialloverde” formato dal M5S (che forte di un exploit che lo porta sopra al 32% sia alla Camera che al Senato non può perdere la ghiotta occasione di far parte del Governo per la prima volta nella sua storia) e dalla Lega di Salvini, altra forza dalle idee populiste e antisistema sebbene del “sistema” facesse parte da anni. Sciolto il primo vincolo, iniziano a cadere gli altri: il “mai col PD” si trasforma non solo nel governo Conte II, ma nella coalizione PD-5 Stelle sviluppatasi in occasione delle regionali in Umbria durante la segreteria Zingaretti e la leadership di Di Maio e proseguita con Letta e Conte.
Dopo il Conte II è la volta del Governo Draghi, la cui esperienza pare stia giungendo al termine, ed anche in questo caso il movimento, in precedenza fortemente critico contro i banchieri e le élite, fa parte della compagine.
Anche l’euroscetticismo, che aveva portato il movimento di Grillo a confluire nell’Europe of Freedom and Direct Democracy Group (EFDD) di Nigel Farage (populista di destra britannico e leader del partito della Brexit) in vista delle elezioni europee del 2014 e del 2019, inizia a vacillare (sino a venire meno) dal momento della rottura con la Lega, con il M5S che proprio dal 2019 non risulta iscritto in alcun gruppo parlamentare europeo e con Enrico Letta che auspicava un ingresso dei grillini nel Partito Socialista Europeo (PSE).
Ci sono, però, dei tabù non ancora crollati: uno è la regola interna del doppio mandato, benché l’introduzione del cosiddetto “mandato zero” per chi come primo incarico era stato consigliere comunale abbia consentito a Virginia Raggi (al terzo mandato dopo uno da consigliere e uno da Sindaco della Capitale) di candidarsi per la seconda volta alle comunali di Roma nel 2021, l’altro è la restituzione obbligatoria per i parlamentari di parte del compenso ricevuto per il proprio incarico.
Dal San Paolo alla Farnesina: l’ascesa di Luigi Di Maio e la storica scissione
Una buona parte dell’attuale clamore mediatico intorno al nome di Luigi Di Maio è dovuto alla svolta di poco più di due settimane fa, quando l’ex Vicepresidente del Consiglio ha lasciato il M5S dopo circa 15 anni (ne faceva parte sin dalla fase embrionale), ma anche il fatto di ricoprire il ruolo di Ministro degli Esteri del nostro Paese in una fase delicata come quella della guerra fra Russia ed Ucraina ha certamente giovato alla sua popolarità.
Eppure, fino al 2013, quasi nessuno – al di fuori del mondo degli attivisti grillini – conosceva il giovane politico campano, che dopo un diploma col massimo dei voti al liceo classico di Pomigliano D’Arco decide di abbandonare gli studi universitari (dopo essere stato attivo nell’ambito dell’associazionismo studentesco) al fine di dedicarsi alle fasi di costituzione del M5S. Nel frattempo, si cimenta in diversi mestieri: dall’operaio presso l’impresa edile del padre al giornalista, dal tecnico informatico allo steward dello Stadio di Napoli.
L’ennesimo nuovo impiego, per Luigi Di Maio, è quello di deputato della Repubblica italiana, eletto alle politiche del 2013 proprio nelle fila del movimento fondato da Grillo e Casaleggio, dopo essere risultato il secondo (preceduto solo dall’attuale Presidente della Camera Roberto Fico) per preferenze del proprio partito per la circoscrizione Campania 1; quella a Montecitorio è la prima reale esperienza politica per il giovane di Pomigliano che, come detto, era impegnato già da anni nei gruppi locali a sostegno di Grillo, ma non era riuscito a conquistare un seggio al consiglio comunale nella propria città d’origine nel 2010, non raggiungendo neanche le 60 preferenze.
È proprio a partire dall’elezione a deputato che comincia la scalata di Luigi Di Maio, che dimostra subito di possedere un certo aplomb rispetto ai suoi colleghi grillini (molto più avvezzi alla polemica benché anche lui si lasci spesso prendere la mano) e di trovarsi piuttosto a proprio agio nei “Palazzi del potere”: a fine marzo del 2013 è eletto vicepresidente della Camera (a soli 26 anni è il più giovane di sempre nell’Italia repubblicana), l’anno successivo è scelto da Beppe Grillo come uno dei 5 membri che formeranno l’organo direttivo del M5S.
Il comico genovese si fida molto di lui, e nell’autunno del 2017 Di Maio viene nominato nuovo capo politico del movimento, dopo una votazione sulla piattaforma Rousseau che lo vede praticamente senza avversari.
A seguito delle elezioni politiche del 2018, che vedono una netta vittoria del M5S da lui guidato, il politico campano è protagonista di una clamorosa caduta di stile, invocando l’impeachement per il Capo dello Stato Mattarella, reo a suo avviso di stare facendo di tutto affinché i 5 stelle non governino.
Alla fine, i 5 stelle governano, ma insieme alla Lega di Matteo Salvini, e, durante il cosiddetto “governo gialloverde”, di cui Di Maio è Vicepresidente del Consiglio oltre che Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, non mancano gli attacchi al comune avversario, il Partito Democratico.
Peccato che con quello che definiva il “partito di Bibbiano” il M5S ci si troverà al governo insieme pochi mesi più tardi, dopo la caduta del Conte I a seguito dell’ormai nota crisi del Papeete: nel Conte II, di Maio sale ancora nelle gerarchie, ricoprendo il ruolo di Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, e si vede confermato sotto questa veste anche con il governo Draghi. Nel frattempo, rassegna le proprie dimissioni irrevocabili (fine gennaio 2020) da capo politico del Movimento, attribuendo queste ultime a scontri interni al partito.
Saranno proprio i dissidi interni, in particolare quelli con Giuseppe Conte (acutizzatisi con le elezioni del Capo dello Stato, durante le quali quest’ultimo non parteggiava per Mario Draghi a differenza di Di Maio), a fargli maturare la recente idea di lasciare il M5S, fondando un nuovo partito politico di centro, Insieme per il futuro, ispirato a valori come atlantismo ed europeismo. Ben distante, dunque, dalle posizioni originali del movimento e dello stesso Di Maio, che comunque negli anni ha dimostrato di non impiegare troppo tempo a cambiare – anche radicalmente – idea. Tale scissione, che implica il coinvolgimento di oltre 60 parlamentari, risulta la più numerosa della storia dell’Italia repubblicana.
Cercando i motivi in base ai quali molti parlamentari grillini abbiano seguito Di Maio, si potrebbe subito pensare alla scadenza del “doppio mandato” per molti di loro il prossimo marzo, regola interna che ne impedirebbe la nuova candidabilità nel 2023 e che con una nuova formazione politica viene meno. Questa è certamente una ragione valida, ma non l’unica: la presa di posizione di Di Maio, infatti, deriva anche dal ruolo che riveste nel governo e dalle posizioni della fronda più vicina al M5S delle origini presente nel movimento.
Nel pieno di una crisi internazionale come quella dovuta all’invasione ucraina da parte della Russia, infatti, non deve esserci alcun dubbio sulle posizioni di un governo, ed il fatto che il Ministro degli Esteri italiano facesse parte di una formazione politica con posizioni in questo caso abbastanza ambigue, o comunque non nette, avrebbe potuto dar luogo a polemiche con l’Unione Europea e gli altri alleati NATO.
Smarcandosi dal M5S e fondando un partito dichiaratamente moderato, atlantista ed europeista, Di Maio ha cancellato tali perplessità prima del loro sorgere, ed è ragionevole pensare che i parlamentari grillini più moderati abbiano voluto seguirlo in quanto sostengono senza indugio il governo Draghi e si riconoscono più in un partito europeista e centrista piuttosto che in uno che fino a non molto tempo fa si professava pesantemente euroscettico ed assumeva posizioni che oscillavano dalla destra alla sinistra a seconda dei temi.
Quali prospettive per il futuro dei 5 Stelle?
Come si è visto, dunque, il partito guidato da Conte non è più quello dei meetup e del V-Day, né quello del governo gialloverde o di quello giallorosso. È qualcosa di diverso e a volte contraddittorio, che spesso rinnega quelli che erano stati i propri cavalli di battaglia ma a volte (come nel caso dei termovalorizzatori) si impunta su questi ultimi attirando su di sé pesanti critiche.
La scissione guidata da Di Maio non è stata la prima e probabilmente non sarà l’ultima, e tutte queste defezioni derivano anche dal fatto che il M5S è una forza relativamente nuova ed molto eterogenea, dove è inevitabile che i propri componenti abbiano in passato simpatizzato per altri partiti politici, così come è probabile che nel futuro si generi una vera e propria diaspora, un “ritorno a casa” da parte di ognuno dei vari parlamentari; d’altronde, Di Maio (che comunque si era evidenziato come più moderato degli altri sin dall’inizio) è tornato tra i moderati, l’euroscettico Gianluigi Paragone (che ha poi fondato il movimento antieuropeista Italexit) è stato espulso nel momento in cui il M5S ha abbandonato l’euroscetticismo, alcuni parlamentari dalle idee più liberali sono confluiti in Coraggio Italia di Toti e Brugnaro e altri più di sinistra in Articolo 1 o Sinistra Italiana.
Probabilmente, poi, vi sarà chi lascerà nel 2023, quando lo spettro della non rielezione si farà più concreto, chi scontento della trasformazione del movimento delle origini darà vita a nuove forze antisistema, chi passerà più a destra e chi più a sinistra.
Una cosa però è certa: le elezioni (di marzo o anticipate che siano), che inevitabilmente ridurranno la numerosità dei gruppi parlamentari grillini, possono servire per dare un’identità più chiara al movimento, e, una volta definita questa, a basarsi su di essa per selezionare accuratamente coloro che sono assolutamente fedeli a quella linea, considerando che prima del voto hanno l’occasione per aderire ad altre forze. Malgrado ciò, però, come abbiamo visto, i cambiamenti sono sempre dietro l’angolo.