Potremmo definire la questione ambientale a Taranto, la questione tarantina?
Certamente, l’inquinamento a Taranto è una questione nazionale con peculiarità che in Europa è difficile trovare. La questione ambientale a Taranto è un problema piuttosto unico nel suo genere, ma nel tempo la volontà di non affrontarla l’ha tramutata in una questione politica.
In molti si chiedono quale sia effettivamente la volontà dei tarantini. In un referendum di qualche anno fa sulla chiusura dell’Ilva non si raggiunse il quorum, e si presentò a votare solo il 19,5% dei tarantini. Secondo lei la città vuole cambiare pagina?
Innanzitutto a quel referendum andarono a votare 34mila persone. Portare 34mila persone non può essere stata una sconfitta. AltaMarea (un’associazione ambientalista tarantina) lanciò manifestazioni di piazza nel 2008 e nel 2009, ma non replicò nel 2010. Questo perché già all’epoca non era più vista come una strategia vincente. Nel 2012 scesero in piazza 40mila persone a Taranto. Quello fu un segnale più chiaro del referendum, a mio avviso. In occasione di quel referendum ovunque si sentiva dire che l’inquinamento a Taranto non solo non fosse importante, ma che addirittura non esistesse.
I tarantini rimasti a casa non erano indolenti, erano invogliati a restare a casa. Non fu colpa dei tarantini, fu colpa della politica che invogliò i tarantini a restare a casa. La colpa fu della politica al potere, al tempo la coalizione di centro-sinistra che si vedeva sia a livello regionale sia a livello nazionale.
Mi permetto una similitudine con l’emergenza coronavirus, perché è strano parlare di emergenza ambientale quando in Italia stiamo vivendo un’altra emergenza così importante. Ma non posso fare a meno di notare una sottile similitudine tra coronavirus e questione ambientale: entrambi sono stati altamente sottovalutati.
In molti si saranno sentiti immuni, e pertanto non hanno cambiato le loro abitudini fino al decreto. In questo percepisco una sottile similitudine con l’inquinamento e Taranto. Appena si è scoperchiato il vaso di Pandora, ossia appena hanno scoperto che la situazione sanitaria era gravissima, che la diossina arrivava nel piatto di ogni tarantino, che a Taranto l’incidenza tumorale alla nascita superava l’immaginazione dei più pessimisti, allora si è capita la gravità del problema.
Il coronavirus è la metafora di quanto accaduto a Taranto.
A Taranto c’è un sentimento ricorrente, ossia quello di sentirsi cittadini di Serie B: bistrattati ed ignorati dallo Stato. Abbiamo il diritto di sentirci vittime?
A Taranto lo Stato e la Regione Puglia hanno volutamente ignorato e nascosto sotto il tappeto le polveri dell’Ilva. C’è stata sempre la volontà di nascondere il problema, che fino al 2005 non era conosciuto e conoscibile. Attenzione: non solo la porzione di popolazione più ignorante, ma anche i letterati e i più colti. Avevano fumi tossici davanti agli occhi e non se ne rendevano conto. A Taranto 200mila persone si alzavano ogni giorno e potevano vedere chiaramente le nubi grigie dello stabilimento e l’inquinamento provocato, ma non le notavano, non si ponevano il problema. Questo è parte di un piano (non studiato ma a cui la politica ha partecipato inconsapevolmente) ben preciso. Si è scelto di fare di Taranto non un polo culturale, ma una città che senza università e senza sguardo al futuro avrebbe reso i suoi abitanti pazienti ed inermi, rassegnati di fronte al disastro ambientale che stava prendendo piede davanti ai loro occhi.
Lo scorso anno diventò virale un suo colloquio pubblico con l’ex Ministro allo Sviluppo Economico Di Maio, che ha incalzato con la frase “Ministro, mi guardi”. Ad un anno di distanza cosa è cambiato?
Nulla, se non le vicende giudiziarie e i contenziosi in atto. Ad ogni modo mi dispiace che si sia perso il focus della mia domanda al Ministro. Ancora in un parallelismo con il coronavirus: i ricercatori oggi si interrogano su quando arriverà il picco dei contagi da coronavirus. Io chiedevo a Di Maio esattamente quello: se il governo fosse a conoscenza di quando arriverà il picco tumorale a Taranto. E lui non rispose, perché non lo sanno. L’assurdità della questione ambientale a Taranto è che non si sia sviluppato alcuno studio, che non si abbiano dati elaborati dal governo, che traccino qual è il futuro per la salute dei tarantini. E’ sconcertante.
ArcelorMittal era il miglior partner a cui vendere lo stabilimento? Alla luce di ciò, come giudica l’operato di Calenda prima e di Di Maio poi?
Dal punto di vista economico, sì. Dal punto di vista ambientale non mi sento di dire di sì, perché il governo quando fece la gara allora non considerò la questione ambientale come punto prioritario, ma come un punto all’interno di altri. Calenda si è trovato per le mani la questione Ilva e voleva liberarsene, l’ha considerata una patata bollente nelle mani del governo. Di Maio stesso, tra foto su Facebook e post sui social media, fece molta scena. Il problema è che non voleva occuparsi della città, ma fare in modo che fosse ArcelorMittal ad occuparsi di Taranto e che con la sua forza producesse profitti. Non era previsto per AM alcun investimento per le bonifiche dei terreni, solo investimenti dal punto di vista tecnologico.
Ha futuro l’acciaio a Taranto con le normative europee sempre più attenti alla sostenibilità produttiva e in generale con questa transizione mondiale verso il rinnovabile (con i vantaggi che ne conseguono)?
In generale l’acciaio non ha un grande futuro in tutto il mondo, perché la capacità produttiva è superiore all’effettiva richiesta d’acciaio. La Cina ha tolto il primato ai paesi leader. Basta guardare la produzione d’acciaio cinese che è in continua crescita. In questo processo, dei tanti altoforni al mondo, una buona parte è sovrabbondante. Non si può più definire l’acciaio come strategico. Dovessi pensare ad un bene strategico, penserei all’energia, quella pulita perlomeno, ma mai all’acciaio.
Dunque l’acciaio a Taranto ha senso soltanto se ArcelorMittal riesce a superare le 7/8 milioni di tonnellate. Se l’azienda avesse fatto convergere la sua intera produzione su Taranto, anche Taranto avrebbe potuto produrre nonostante un mercato abbastanza depresso. La caratteristica dello stabilimento è che superato una certa quantità, diventa vantaggioso produrre a Taranto. Ma questo tetto non si può raggiungere attualmente.
Perché i vari governi non hanno mai considerato l’ipotesi di chiudere lo stabilimento?
Forse dovremmo chiederlo a loro. Ad ogni modo per completare un processo di bonificazione e chiusura serve prima di tutto un piano per il futuro della città, in quanto comunque la fabbrica conta non pochi dipendenti a Taranto. In secondo luogo, serve uno sguardo ad ampio raggio che sappia programmare un progetto di durata ventennale, probabilmente da spezzare in due piani decennali. I nostri governi hanno sempre dovuto pensare ad altro, o a sopravvivere nel mentre. Ripensare Taranto era una sfida che non potevano permettersi di cogliere.
Cosa auspica per la sua città?
Faccio un ragionamento da insegnante. Mi auguro che ci sia un’innovazione all’interno delle scuole, che si preparino i ragazzi all’altezza delle nuove sfide mondiali. E soprattutto che parta dall’università una nuova ventata culturale, assimilabile al Green New Deal a livello mondiale che a livello locale trasformi Taranto da un polo dell’inquinamento ad un polo di cultura.
Confido che l’istruzione abbia un ruolo proattivo. Mi auguro che la crisi di Taranto generi qui nuove opportunità. Per Taranto c’è una pigrizia mentale per cui non si riesce ad immaginare un futuro senza industria. Ma a dire il vero non si riesce ad immaginare un futuro nemmeno con.
Di inquinamento e morti premature avevamo parlato qui.