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Le politiche monetarie espansive, un’arma a doppio taglio contro la crisi

Tempo di lettura stimato: 7 min.

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La crisi economica generata dalla pandemia di Covid-19 ha costretto le banche centrali di tutto il mondo a emettere all’unisono un “Whatever it takes” per salvaguardare le economie dei propri Paesi. In particolare, Fed e Bce, attraverso politiche convenzionali e non, hanno inondato il mercato di liquidità, cercando di stimolare consumi e investimenti. Ma le nuvole inflazionistiche apparse negli Usa nelle settimane scorse hanno riportato nei radar delle autorità monetarie questo rischio. È davvero possibile un rialzo dei prezzi? E quali altre incognite potrebbero presentarsi in seguito a politiche monetarie espansive? 

Il rischio inflazione

Il principale pericolo che corrono i sistemi economici, a seguito di politiche monetarie espansive, è senza ombra di dubbio un aumento dell’inflazione sopra il livello prefissato (circa 2% per Fed e Bce). In realtà, nonostante l’enorme liquidità iniettata nel sistema dalle due banche centrali, accompagnata da tassi d’interesse bassi, negli ultimi 10 anni il livello di inflazione è stato più basso di quello desiderato. Ciò ha sollevato alcuni dubbi sull’efficacia di tali manovre nello stimolare l’inflazione. 

Tuttavia, a causa delle politiche espansive della Fed e dell’ingente piano di stimolo economico voluto da Joe Biden, nelle settimane scorse il rialzo dei tassi d’interesse sui titoli decennali americani ha fatto registrare un aumento, seppur relativamente basso, proprio sul fronte inflattivo, creando alcuni timori per una possibile restrizione monetaria prima dell’effettiva scadenza prefissata dalla banca centrale americana. 

Negli Usa l’incremento dei prezzi è passato dallo 0,1% del 2020 all’1,4% del gennaio appena trascorso. L’Eurozona, invece, è passata dal -0,3% verso la fine dello scorso anno, a circa lo 0,9% registrato invece nel primo mese del 2021. 

Segnali importanti, che potrebbero far crescere le aspettative di inflazione degli agenti economici nelle prossime settimane, i quali potrebbero anticipare così le conseguenze nel presente, chiedendo una maggiorazione del premio per il rischio. 

Nonostante i mercati sembrino prevedere un rialzo dei prezzi, la realtà offre qualche spunto su cui riflettere. Negli Usa, il tasso d’inflazione è stato trainato prevalentemente dall’aumento dell’8,4% dei prezzi della benzina, in controtendenza rispetto al -15% registrato nel corso del 2020.

Ma, se davvero l’inflazione possa arrivare intorno al 2%, ciò dipenderà soprattutto da fattori legati all’economia reale. Attualmente il tasso di disoccupazione si attesta intorno al 6,7%, la domanda dei consumatori è relativamente debole, e il tasso di risparmio (inteso come risparmio finanziario) è intorno al 14%. Tutti e tre elementi importanti: più il tasso di disoccupazione e di risparmio sono alti, meno spinta si avrà dal lato dei consumi, incidendo negativamente sulla domanda, e di conseguenza sull’inflazione. Inoltre, nonostante sia la disoccupazione che il risparmio stiano gradualmente diminuendo, il comportamento degli agenti economici cambia lentamente, ritardando gli effetti sull’economia reale e in particolare sul lato della domanda. 

Per quanto riguarda l’Eurozona invece, l’improvvisa “fiammata” inflazionistica è stata guidata da altri motivi. Innanzitutto, a gennaio in Germania è scaduto lo sconto Iva di 6 mesi su alcuni beni per stimolare i consumi nel periodo post chiusura, portando così un relativo aumento del prezzo dei prodotti. Da sottolineare poi come nel primo trimestre del 2021, vi sia stato un rialzo del costo dell’energia legato all’innalzamento del prezzo del petrolio del 20% (causato dalla ripresa delle attività produttive), che ha così contribuito al rimbalzo. 

Infine, come fa notare l’economista Marcello Minenna sul Sole 24 Ore, le prossime stime  potrebbero subire un’impennata per via dell’effetto statistico di confronto rispetto all’anno scorso. L’entrata di molti Paesi in lockdown nel marzo-aprile 2020 ha generato una caduta della produzione, dei consumi, e dei prezzi, trascinando l’inflazione al ribasso. Questo “effetto ottico”, dato dal confronto con il periodo forse più difficile della pandemia, potrebbe influenzare la decisione degli operatori sul mercato, creando qualche tensione sui tassi d’interesse. 

La trappola della liquidità 

Sia la Fed che la Bce hanno immesso quantità ingenti di denaro nel sistema economico negli ultimi anni e soprattutto nei mesi pandemici, ma con i tassi vicini allo zero, gli stessi istituti centrali potrebbero incorrere nella cosiddetta trappola della liquidità. Il termine, coniato dall’economista inglese John Maynard Keynes negli anni ‘30, descrive come le politiche monetarie espansive cessino di produrre effetti reali sull’economia, non essendo  più in grado di influenzare la domanda aggregata quando il tasso d’interesse nominale controllato dalla banca centrale tocca un valore pari a 0. In questa circostanza inoltre, gli operatori economici possono sviluppare aspettative negative sul futuro, preferendo così risparmiare la liquidità aggiuntiva immessa dalle banche centrali, piuttosto che investire o spendere. 

Questa è la situazione che oggi caratterizza, più che la Fed, la Bce. Da circa sei anni, il tasso di rifinanziamento, ovvero il tasso pagato dalle banche commerciali per ottenere prestiti settimanali dalla Banca centrale europea, è allo 0%, mentre quello dei depositi e del rifinanziamento marginale sono rispettivamente -0,50% e 0,25%. Per ora, Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, ha dichiarato che i tassi non verranno mossi, ma è probabile che, con spazi di manovra già limitatissimi per la Bce, un ulteriore taglio possa non essere efficace nel stimolare l’economia.

Diversamente dalla Bce, la Fed è sempre rimasta restia nell’utilizzare i tassi negativi come stimolo all’economia. Nell’ultima riunione di marzo, il governatore Jerome Powell ha confermato il tasso di riferimento nell’intervallo compreso fra 0% e 0,25%, affermando che tale livello rimarrà fino alla fine dell’emergenza. 

L’effetto dei tassi negativi sulle banche

La scelta di intraprendere una politica monetaria espansiva pone delle incognite anche sul settore bancario. In particolare, la decisione presa dalla Bce sei anni fa di avviare una politica a tassi negativi (Negative interest rate policy o Nirp) sui depositi, invitando così gli istituti di credito a prestare all’economia reale, piuttosto che a depositare la liquidità presso la banca centrale, ha comportato un aggravio per i bilanci delle banche dell’Eurozona di circa 23 miliardi nel periodo 2014-2018. La scarsa fiducia per una possibile ripresa e la preoccupazione di veder deteriorare i crediti concessi hanno spinto le banche a collocare le riserve in eccesso presso Francoforte, nonostante il tasso negativo sui depositi. La perdita così generata potrebbe essere “scaricata” sui clienti, con l’applicazione di un rendimento negativo per i conti eccedenti alcune soglie.

Per mitigare questi effetti, la Bce ha introdotto due espedienti importanti: il primo è una  forma di tiering, cioè un’esenzione dal pagamento del tasso negativo pari al -0,5% su una parte delle riserve in eccesso, permettendo agli istituti di credito di tamponare così i possibili disavanzi.

L’altro strumento, invece, consiste in prestiti di lunga scadenza a tassi agevolati (da -1%  a -0,5%), con la sola condizione di non fermare il credito all’economia. In questa condizione di incertezza, gli economisti sono concordi che tali misure possano servire nel supportare la profittabilità delle banche, mentre è più difficile capire se possano avere successo nell’incentivare il credito. 

Effetti sul settore azionario 

Il finanziamento agli Stati fornito dalle banche centrali attraverso l’acquisto di titoli di Stato, ha avuto come principale conseguenza l’abbassamento dei rendimenti, spingendo gli investitori alla ricerca di investimenti redditizi verso il mercato azionario. Il 2020 è stato l’anno dei record  sicuramente per i titoli Hi-Tech, con l’indice Nasdaq salito del 47%, grazie a Tesla (+715%). Risultati positivi sono stati incamerati anche da Apple (+84%), Amazon (+80%) e Microsoft (+41%), mentre in Europa, solo la borsa di Francoforte ha chiuso in positivo il 2020. Il primato assoluto come performance, però, spetta al Bitcoin con uno slancio del 270%. Questa enorme crescita dei valori azionari e delle criptovalute ha sollevato non pochi dubbi su possibili bolle formatosi a seguito del crollo dei rendimenti del mercato obbligazionario. 

Le politiche monetarie espansive sono sufficienti per arginare la crisi? 

I decisi interventi della Fed e della Bce sono stati fondamentali nel dare ossigeno agli Stati durante la crisi in corso, e lo sono tutt’ora. Tuttavia, dalle conseguenze delineate, pare certo che la politica monetaria non basti per invertire il ciclo economico negativo.  

Più queste manovre espansive si protraggono nel tempo, più vi è il rischio che gli investitori possano dubitare della loro efficacia, e di conseguenza, meno effetti si concretizzeranno. Inoltre, la stabilità di settori come quello azionario, nell’ultimo periodo preso d’assalto alla ricerca di rendimenti, è di fondamentale importanza per una stabilità generale del sistema.  È indispensabile, quindi, un coordinamento fra la politica monetaria e la politica fiscale, per far sì che nel lungo periodo le azioni di Fed e Bce non perdano la loro persuasività. Ma, come lo stesso Keynes ha scritto, “probabilmente nel lungo periodo saremo tutti morti”. 

*Crediti foto: Maryna Yazbeck, via Unsplash

Quest’articolo fa parte di una serie di analisi sulle politiche di Bce e Fed durante la pandemia. Leggi anche il precedente: In che modo le banche centrali hanno combattuto il covid?

Riccardo Romano Boiani
Nato a Lecco 22 anni fa. Ufficialmente studio Scienze Politiche alla Statale di Milano, con l'obiettivo di trovare qualche Cigno Nero negli anni a venire. Appassionato di macroeconomia, finanza, politica, sognando di lavorare nel mondo dell'informazione. Role model nella vita? Corrado- wait for it- Augias.

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