A vent’anni dall’adozione della Risoluzione 1325/2000 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il dibattito internazionale sul ruolo delle donne nelle operazioni diplomatiche si è fatto più intenso e rilevante. Proprio nell’ottobre del 2000 infatti, il Consiglio di sicurezza dell’Onu approvò all’unanimità una risoluzione che fece da spartiacque nella tradizione delle strategie di politica estera, tanto a livello nazionale che internazionale. Per la prima volta si riconosceva la necessità di adottare un approccio di genere alle operazioni di pace che prendesse in considerazione, da un lato, le conseguenze peculiari dei conflitti armati su donne e ragazze e che, dall’altro, stimolasse il coinvolgimento del sesso femminile nelle operazioni di peacebuilding e peacekeeping. L’Agenda donne, pace e sicurezza (Dps), ovvero l’insieme degli obiettivi Onu sul tema e dei piani elaborati per incentivare l’empowerment femminile, rappresenta la pietra miliare della promozione della parità di genere in un mondo, quello degli affari esteri, marchiato per lungo tempo da logiche e personalità maschili.
La risoluzione 1325 ha ispirato la creazione di Piani d’azione nazionali in circa 66 Paesi del mondo e l’equità di genere nelle relazioni internazionali (Ri) è diventata uno degli obiettivi prioritari della comunità internazionale per il XXI secolo, come dimostrato dalle decine di nuove risoluzioni e report ufficiali pubblicati da organizzazioni come le Nazioni Unite. Le donne sono quindi diventate risorse essenziali per garantire la pace e la sicurezza nelle fasi di prevenzione e ricostruzione post-conflitto e la loro presenza nei processi decisionali e di negoziazione risulta oggi cruciale per il raggiungimento di soluzioni di lungo termine nelle aree di maggiore instabilità.
Quale impatto hanno le donne sulla pace e la sicurezza?
Prima della risoluzione 1325, le donne erano largamente escluse dai tavoli di trattativa internazionali. Il realismo tradizionale – secondo cui il sistema delle relazioni internazionali si fonda sulla lotta e la competizione tra Paesi – aveva imposto quello che Robert Kagan aveva definito nel 2002 come l’“approccio di Marte” alle Ri: giochi di forza, minacce e ricorso all’uso della forza erano considerati dagli Stati gli unici mezzi per raggiungere i propri obiettivi di politica estera. Francis Fukuyama, ad esempio, che pur non si opponeva di per sé all’emergere di figure femminili nella politica internazionale, riteneva che approcci più femminili alla sicurezza, ovvero fondati sulla cooperazione, la mediazione e la collaborazione, sarebbero potuti diventare uno “svantaggio” se utilizzati di fronte a leader spregiudicati. Negli ultimi decenni però, nuove ipotesi femministe si sono fatte spazio nell’area degli affari esteri e il ruolo delle donne nei processi di prevenzione e garanzia della pace è stato rivalutato e promosso. Affidare alle donne incarichi diplomatici di rilievo e incoraggiare la loro leadership nelle operazioni di sicurezza significa molto più che garantire parità di genere nelle istituzioni di rappresentanza. Un crescente numero di analisi ha dimostrato che là dove le donne sono maggiormente coinvolte nella società civile e nei sistemi legislativi dei loro Paesi, i livelli di violenza impiegati dai loro Stati per fronteggiare scontri o conflitti internazionali calano drasticamente. Più alti livelli di partecipazione femminile in parlamento sono direttamente associati a una diminuzione del rischio di scoppio di una guerra civile e alla riduzione del numero di violazioni dei diritti umani perpetrati nel corso di conflitti intra e interstatali, come deportazioni politiche, torture e uccisioni.
Ma è nei processi di pace che il ruolo delle donne pare essere ancora più cruciale. Vari studi hanno infatti evidenziato la correlazione tra la presenza femminile nei processi di negoziazione e il successo degli accordi di pace. In particolare, è stato dimostrato come l’inclusione di attori della società civile, incluse organizzazioni femminili, nelle fasi di mediazione faccia diminuire del 64% le possibilità di fallimento di un accordo internazionale e aumenti del 35% la probabilità che i concordati garantiscano stabilità nelle aree interessate da tensioni per almeno quindici anni. La presenza di donne nelle missioni di sicurezza ha dato esiti sorprendenti anche in un progetto di ricerca del 2015 del Center on Conflict, Development and Peacebuilding presso il Graduate Institute Geneva che ha mostrato come tanto più alta è la posizione che le donne ricoprono nella fase di mediazione e, quindi, tanto maggiore è la loro influenza, tanto più alto è il tasso di raggiungimento e implementazione di un accordo. L’analisi di alcune negoziazioni in Irlanda del Nord, Sudafrica e Somalia, supportate da numerose altre evidenze, hanno messo in luce che anche quando le negoziatrici donne erano accolte nelle trattative con estrema diffidenza dalle loro controparti maschili, esse si sono rivelate le più capaci a costruire un clima di fiducia tra i mediatori e a stimolare un dialogo che coinvolgesse tutte le parti in gioco. In un contesto altrimenti acrimonioso, l’intervento delle donne si rivela uno dei migliori mezzi di risoluzione delle dispute.
Perché le donne tendano a preferire strategie politiche più pacifiche rispetto agli uomini è un tema ancora fortemente dibattuto nella letteratura. Secondo i principali filoni di studio accademici, le loro caratteristiche biologiche sembrano suggerire, da un lato, una certa naturale attitudine alla filantropia e alla collaborazione e, dall’altro, tale indole potrebbe derivare da secoli di costruzioni sociali, processi di socializzazione ed evoluzioni degli stereotipi di genere che le avrebbero rese più inclini alla cooperazione e alla ricerca di compromessi. Alcune interessanti ricerche sull’evoluzione delle specie hanno infatti portato alcuni scienziati a ipotizzare che secoli di sistemi patriarcali in alcune specie animali abbiano cambiato le femmine a livello endocrino: le gerarchie fondate sulla dominazione maschile hanno costretto le femmine a fare sempre più scelte di asservimento per garantirsi la sopravvivenza. La dominazione e la leadership dei maschi, create per mezzo della loro maggiore prestanza fisica, si sono tradotti nell’idea di potere delle società umane molti secoli più tardi, quando la legge del più forte ha iniziato a vigere incontrastata anche nelle relazioni politiche tra Stati.
La parola ai numeri
Nonostante gli scenari del policymaking globale stiano evolvendo e siano meno rare le presenze femminili nei ruoli di maggior prestigio politico, il cambiamento è appena iniziato e i gap di genere nelle istituzioni sono ancora molto ampi. Nel 2019, in media solo il 24,3% dei parlamentari in tutto il mondo erano donne, mentre in Europa erano sei i ministri della difesa donne e solo tre quelle a capo dei ministeri degli affari esteri. Alla fine del 2017, invece, solo il 15% degli ambasciatori in tutto il mondo era di sesso femminile. Secondo i dati di Women in International Security inoltre, la disparità di genere negli affari di sicurezza internazionale è ancora più evidente se relativi ai settori non governativi. Ad esempio, circa il 73% degli esperti di sicurezza nei think tanks di Washington sono uomini.
È pur vero però, che la creazione dell’Agenda donne, pace e sicurezza ha permesso negli ultimi anni la proliferazione di politiche nazionali e internazionali che favoriscono l’inserimento delle donne nel settore delle Ri, soprattutto per indirizzare e gestire i processi di transizione dai conflitti alla pace. Le barriere politiche e sociali che ancora impediscono il pieno coinvolgimento delle donne nelle operazioni diplomatiche indicano che la strada da percorrere continua a essere in salita, ma le rivendicazioni delle organizzazioni femminili di tutto il mondo e i risultati del loro lavoro sul campo, sostenuti da varie evidenze empiriche, fanno ben sperare in un futuro più eguale anche nel campo della sicurezza internazionale.