La guerra americana in Afghanistan è iniziata nell’ottobre 2001, con l’obiettivo di attaccare al Qaida, la rete terroristica responsabile degli attentati dell’11 settembre. Al Qaida godeva dell’appoggio del regime afghano, controllato dagli anni Novanta dai talebani, gruppo di fondamentalisti islamici. L’iniziale sconfitta del regime talebano non ha però comportato la fine delle ostilità. La guerriglia messa in piedi dai talebani contro le altre forze alleate coinvolte, le istituzioni afghane e i civili, ha reso questa la guerra più a lungo combattuta dagli Stati Uniti.
Ma, il 29 febbraio 2020, a Doha, Qatar, gli Stati Uniti e i talebani hanno firmato un accordo di pace storico, un punto di svolta per la fine di questa guerra.
Cosa prevede l’accordo?
L’ accordo prevede:
- l’estensione del periodo di “riduzione della violenza” (iniziato il 22 febbraio), fino ad un “cessate il fuoco” permanente
- il ritiro delle truppe straniere entro 14 mesi
- l’impegno da parte dei talebani a non offrire ospitalità a gruppi terroristi stranieri
- l’inizio di un dialogo tra talebani e governo afghano
- scambio prigionieri tra Stati Uniti e talebani
Il trattato di Doha è il punto di arrivo di una serie di negoziati inaugurati nel 2018 su iniziativa di Donald Trump, la cui strategia mirava ad instaurare un dialogo bilaterale tra americani e talebani. Una strategia spesso criticata, ma che si è rivelata vincente per la firma del trattato.
Il trattato, certamente non perfetto, potrebbe essere il primo tassello di un processo di pace più che necessario in un Paese dove, secondo le Nazioni Unite, nel solo 2019 si sono registrate più di 10.000 vittime tra morti e feriti.
È evidente che il trattato ed i suoi possibili sviluppi, interpretato dalla rivista di geopolitica Limes come uno scarico di responsabilità ed un’ammissione della sconfitta americana, avranno una rilevanza politica significativa per Trump e le elezioni presidenziali di novembre 2020.
Il dialogo intra-afghano
Dopo il ritiro delle truppe straniere, si passerà ad una seconda (e più critica) fase, durante la quale i talebani, il governo e la società civile dovranno instaurare un dialogo. È proprio questo dialogo uno dei nodi centrali alla base dell’accordo; il governo afghano, “burattino americano” per i talebani, non ha infatti partecipato ai colloqui né firmato il trattato.
Il governo è diviso dalla contesa legata al risultato delle elezioni presidenziali (settembre 2019), ma anche i capi dei talebani, seppur coalizzati contro gli americani e le autorità di Kabul, non sono completamente in sintonia tra loro, e non tutti hanno partecipato agli accordi di Doha. Un mancato accordo tra talebani e governo potrebbe inasprire i conflitti all’interno del Paese, o portare all’intervento di altre potenze.
Diritti delle donne
All’interno della società afghana, una voce che si fa sentire è quella delle donne, diventata più forte dopo il 2019, quando Mike Pompeo, segretario di stato USA, ha reso chiaro che il rispetto dei diritti di donne e delle minoranze nei dialoghi di pace non è responsabilità americana.
“Siamo uscite dal buio, non torneremo mai indietro”, ha dichiarato Mary Akrami Sahak, direttrice dell’ Afghan Women’s Network. Le richieste di partecipazione alle trattative e la paura di vedersi negare i diritti conquistati non sono infondate: i diritti delle donne afghane hanno vissuto una storia tumultuosa.
Dopo avere conquistato il diritto di voto nel 1919, con la costituzione del 1964 le donne hanno avuto accesso all’educazione e alla vita politica per poi subire, durante il regime dei talebani dal 1996, gravi violazioni dei diritti umani fondamentali e significative limitazioni di libertà. Nel 2001, con il governo di Hamid Karzai sostenuto dalle Nazioni Unite, le scuole, il lavoro e la vita pubblica hanno riaperto le porte alle donne. Ulteriori risultati sono stati raggiunti con la costituzione del 2004, che garantisce loro uguaglianza de iure, e con l’approvazione della legge per l’eliminazione della violenza sulle donne (EVAW) nel 2009. Ma problemi legati alla violenza, all’istruzione e alla parità di genere persistono ancora: nel 2011 uno studio condotto dalla Thomson Reuters Foundation ha definito l’Afghanistan “il Paese più pericoloso dove essere una donna”.
Nonostante i progressi nella partecipazione alla vita pubblica ed economica del paese, i numeri parlano chiaro: dei 21 membri incaricati da Kabul il 2 aprile 2020 di condurre i negoziati con i talebani, solo 5 sono donne.
Fawzia Koof, parlamentare e attivista, è una di queste cinque; dopo aver riscontrato difficoltà nell’ottenere supporto da parte degli altri membri, ha dichiarato in un’intervista alla Thomson Reuters Foundation : “Vogliamo e ci aspettiamo che anche gli uomini difendano i diritti delle donne, che sono state vittime della guerra e devono ora avere un ruolo cruciale nella costruzione della pace”.
Le donne nei processi di pace
Il coinvolgimento delle donne nei trattati di pace è regolato dalla Risoluzione 1325, approvata dal consiglio di sicurezza all’ ONU nel 2000, la prima che considera l’impatto della guerra sulle donne e riconosce l’importanza del loro contributo nella prevenzione e risoluzione dei conflitti. Importanza riconosciuta da una ricerca di International Interaction, che evidenzia come la partecipazione di tutti i gruppi della società civile, tra cui le donne, renda un accordo di pace il 64% meno propenso al fallimento. Inoltre alti livelli di uguaglianza di genere sono associati a minori probabilità di conflitto. Anche secondo uno studio dell’ International Peace Institute la possibilità che la pace duri per più 15 anni aumenta del 35% se le donne sono incluse nelle trattative. Le donne sono infatti solitamente meno concentrate sui bottini guerra e tendono a prediligere i compromessi, lo sviluppo economico, l’educazione e la giustizia, elementi chiave per una pace duratura.
Nella realtà tutto ciò non sembra essere considerato: secondo l’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e il think tank Council of Foreign Relations, nelle trattative di pace tra il 1992 e il 2018 le donne hanno costituito il 3% dei mediatori, il 4% dei firmatari e il 13% dei negoziatori. Nei 1187 trattati esaminati (1990-2017), solo il 19% contiene riferimenti alle donne, ed il 5% menziona la violenza di genere.
Tornando all’ Afghanistan, tra il 2004 e il 2015, nei 23 tentativi di dialogo tra il governo e i talebani, le donne sono state presenti ai tavoli in due occasioni: nel 2010 (9%) e nel 2011-2012 (10%). In assenza di partecipazione formale, attiviste e politiche hanno tentato di influenzare il processo di pace tramite colloqui informali con il governo e i talebani, con la crescente partecipazione politica in organi di governo, come l’Alto Consiglio per la pace (composto per il 26% da donne) e i Consigli provinciali per la pace (20% donne), e attraverso campagne di sensibilizzazione sulla critica situazione umanitaria.
“Se le donne verranno escluse dai processi di pace, negoziazioni comprese, una pace duratura non verrà mai raggiunta […] sacrificare i diritti umani nel nome della convenienza politica porterà ad ulteriori conflitti e favorirà la cultura dell’impunità”; questo è quello che sostiene Sima Samar, medico e attivista afghana. Samar accusa gli Stati Uniti di avere prima strumentalizzato l’oppressione dei diritti delle donne da parte dei talebani per giustificare l’invasione nel 2001, e ora di non stare considerando i diritti umani nelle trattative.
Pace e pandemia?
Il processo di pace, già minacciato dall’iniziale rifiuto da parte dei talebani di un dialogo con i 21 membri incaricati da Kabul, dalle contese sul rilascio dei detenuti e dagli episodi di violenza, verrà ulteriormente messo a rischio dalla diffusione del coronavirus, come sostenuto da Barnett Rubin, direttore del Center on International Cooperation.
L’incontro che doveva segnare l’inizio del dialogo intra-afghano, previsto per il 10 marzo, non è avvenuto; le condizioni che il negoziato richiede (ospitalità di un paese terzo, mediazione da un attore neutrale, e presenza di rappresentanti della comunità internazionale) sono infatti ora compromesse.
C’è però chi ipotizza anche risultati paradossali, come Laurel Miller, direttrice del programma sull’Asia dell’ International Crisis Group. Dopo un’ eventuale autorizzazione medica per raggiungere la località del negoziato, i limiti ai viaggi imposti dal Covid-19 potrebbero costringere i decisori ad una “permanenza forzata” con l’effetto di “produrre discussioni più serie” e ridurre quindi i tempi diplomatici.