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Charlie Hebdo, Vienna e lo stato del terrorismo jihadista in Europa

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Con gli attentati del 29 ottobre e del 2 novembre, a Nizza e a Vienna, si è riaccesa l’attenzione dell’opinione pubblica sul problema del terrorismo jihadista in Europa. L’uccisione da parte degli americani di al-Baghdadi, capo dello Stato Islamico, nel 2019 aveva ridimensionato la portata del movimento e lasciato un attimo di respiro all’Unione europea. Gli ultimi due attacchi hanno però dimostrato che i jihadisti sono ancora attivi nonostante il cambio di leadership.

La Francia resta dunque uno dei maggiori obiettivi dell’Isis. Dall’attacco terroristico del 2015 alla redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo per la vignetta sull’Islam, la nazione aveva già subito tre attentati. Per l’Austria si tratta invece del primo colpo jihadista.

Francia: un caso particolare

Nel 2019 il numero di arresti per terrorismo jihadista nell’Unione europea è stato pari a 436, di cui 202 solo in Francia (46%). Nello stesso anno, la Francia è stata anche il principale obiettivo degli attacchi terroristici di matrice islamica volti a colpire l’Europa: su 7, 3 sono avvenuti sul suolo francese nel 2019. Dal primo dicembre 2018, la Francia ha registrato più di 20mila persone nei report per la prevenzione della radicalizzazione del terrorismo, di cui 9.762 da monitorare in maniera più attiva. È impossibile però per Parigi riuscire a garantire una copertura del genere: come sottolinea Analisi Difesa, occorrerebbero circa quattro agenti per sospetto al giorno. 

La forte presenza jihadista in Francia non è casuale. Il Paese viene mal visto dalle milizie islamiche per numerosi motivi. Anzitutto, con Sarkozy la Francia si è schierata al fianco del Regno Unito e degli Usa in Siria e ha partecipato al rovesciamento di Gheddafi in Libia. Bisogna anche considerare le discriminazioni subite dai musulmani in Francia. Secondo uno studio della Stanford University del 2010, infatti, un cittadino francese cristiano avrebbe due volte e mezzo più probabilità di ottenere un colloquio di lavoro rispetto ad un cittadino musulmano. Come un cane che si morde la coda, le discriminazioni sono peggiorate dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo.

In più, secondo il governo francese le ultime dichiarazioni di Erdogan su Macron, accusato di portare avanti una “campagna d’odio” contro l’Islam, favorirebbero la polarizzazione del terrorismo jihadista.

Il movimento jihadista in Europa

Un report dell’Unione europea sul terrorismo definisce il jihadismo come “una sotto-corrente del salafismo, un movimento musulmano sunnita revivalista che rifiuta per motivi religiosi la democrazia e i parlamenti eletti”. Al contrario delle altre correnti salafiste, “i jihadisti legittimano l’uso della violenza facendo riferimento alle dottrine dell’Islam classiche sulla jihad”, la guerra santa contro gli infedeli. L’obiettivo del movimento è la creazione di uno stato islamico governato dalla shari’a, la legge Islamica interpretata in maniera molto severa.

Il terrorismo jihadista è responsabile del 96% delle morti per terrorismo in Europa. Come sostenuto dal report ReACT 2020, “i Paesi europei affrontano una minaccia terroristica concreta a causa dell’alto numero di foreign terrorist fighters, della presenza di reti jihadiste sviluppate e della vicinanza geografica alle zone di guerra”. Il network jihadista in Europa si appoggia prevalentemente ad al-Qaeda ed allo Stato Islamico (Is), ma le varie cellule non sono strettamente legate tra loro né necessariamente hanno una strategia comune. Come infatti riportato dal report ReACT del 2020, “l’85% degli attacchi registrati nel periodo 2014-2019 è stato portato a termine da singoli attentatori, il 15% da commando suicidi”.

La composizione del terrorismo jihadista

È importante distinguere gli attacchi con una strutturata organizzazione da quelli “autonomi”, perpetrati da un singolo individuo spesso in maniera improvvisata. Come evidenziato dal report ReACT 2020, i secondi sono spesso causati dall’effetto emulativo dei primi: gli attacchi di singoli individui si concentrano principalmente negli 8 giorni successivi ai grandi eventi. Gli attacchi autonomi rappresentano il 24% dei totali, arrivando a toccare il 41,5% in Inghilterra.

Le milizie islamiche presenti nell’Unione europea sono multi-etniche: esse includono un alto numero di marocchini, algerini, turchi e iracheni, ma anche francesi. Gli attentatori sono prevalentemente uomini sulla trentina: nel 2019 hanno colpito solo maschi, con un’età mediana di 32 anni. È comunque rilevante la presenza di uomini di mezza età (20%), nati prima del 1980. Le donne rappresentano una minoranza numerica ma crescente e svolgono un ruolo attivo, gestendo in particolare il processo di radicalizzazione online e l’educazione dei futuri combattenti.

Il processo di radicalizzazione

Il processo con cui gli individui si avvicinano al terrorismo, la cosiddetta radicalizzazione, si può sviluppare in due modi diversi: “faccia a faccia” e come “auto-radicalizzazione”. Come sottolineato dallo studio del Ministero della difesa “Sotto la lente”, “il primo metodo rappresenta una costante nella storia della radicalizzazione jihadista in quanto era già ampiamente utilizzato da Al-Qaeda per reclutare i suoi militanti nei primi anni 2000”. L’”auto-radicalizzazione”, facilitata dalla diffusione di video e contenuti propagandistici online, invece permette di reclutare nuovi combattenti a distanza. Non sempre questo processo avviene individualmente: spesso, per organizzarsi e confrontarsi, i fanatici si uniscono a gruppi su social network come Telegram o Rocket Chat.

Sono anche altre le tendenze messe in luce dallo studio. Prima tra tutte, si rileva che, con l’aiuto di internet, dal 2014 è aumentato il numero di “homegrown terrorists”, ovvero combattenti nati e radicalizzatisi nello stesso Paese in cui hanno poi compiuto l’attacco. Contemporaneamente si è visto un picco dei “foreign terrorist fighters”, coloro che dal Paese di radicalizzazione si sono spostati per combattere in territori occupati da organizzazioni terroristiche.

Il tempo che passa dal primo contatto con l’ideologia e la prima azione legata al jihadismo viene definito dagli esperti “tempo di attivazione”. Lo studio “Sotto la lente” evidenzia che esso possa andare da meno di un anno a circa quindici, maggiormente nei primi quattro anni dall’incontro con il terrorismo.

Il “tempo di attivazione” è poi influenzato dal metodo di radicalizzazione. Solitamente gli individui “auto-radicalizzati” presentano un “tempo di attivazione” minore, che non supera quasi mai i due anni, quasi sempre pronti ad agire sin da subito. Al contrario, i “faccia a faccia” portano gli individui ad attivarsi maggiormente tra il terzo e quarto anno.

Prevenzione del terrorismo da parte dell’Unione europea

Per contrastare il terrorismo, nel 2016 l’Ue ha istituito il Centro europeo antiterrorismo, con il principale obiettivo di supporto operativo ai Paesi membri, in collaborazione con l’Ufficio europeo di polizia (Europol). Ma un contrattacco dall’alto non è abbastanza. Come suggerito da Affari Internazionali, la prevenzione parte dal basso. Essendo gli attentatori in gran parte immigrati di seconda o terza generazione, bisogna concentrarsi sul percorso di educazione per evitare derive estremiste, puntando ad una maggiore inclusione nella società senza dimenticare le specificità della cultura della famiglia. Affari Internazionali ribadisce inoltre come sia importante prestare un occhio di riguardo alle carceri: nei momenti di estrema fragilità emotiva non è difficile cadere in una deriva estremista.

Un nuovo alleato del jihadismo

Con le quarantene e i danni economici, l’affluenza su internet è aumentata e di conseguenza il traffico verso siti e canali social delle organizzazioni terroristiche islamiche. Sebbene a breve termine il rischio di attacchi terroristici convenzionali sia basso per la mancanza di luoghi di aggregazione, i gruppi jihadisti potrebbero riscuotere maggior sostegno e reclutare nuovi combattenti attivi alla fine dei lockdown. Sarà quindi importante aumentare il monitoraggio e la prevenzione da parte delle autorità per evitare che la fine della pandemia porti ad un’ondata di attacchi.

Elena D'Acunto
Napoletana di nascita, milanese d’adozione, americana per 3 mesi. Dopo 5 anni di liceo scientifico, ora studio filosofia alla Statale di Milano. Ho tre passioni: la politica, la musica e le scarpette da arrampicata. Di giorno scrivo per OriPo, di notte mi trasformo in una bimba di Lilli Gruber.

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