Quando l’11 ottobre il Primo Ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed ha vinto il premio Nobel per la pace, l’attenzione del mondo si è focalizzata sull’Africa. Questo continente, spesso ignorato, è tornato con prepotenza sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo con un messaggio di speranza. La pace tra l’Etiopia e l’Eritrea dopo 18 anni di guerra latente (un tempo infinito per due paesi dove l’età mediana è rispettivamente 18 e 19 anni) e il grande progetto di liberalizzazione dell’economia e della società, messo in piedi in meno di un anno da Abiy in uno degli stati più autoritari e repressivi del continente, ha fatto sperare molti in una svolta decisiva per l’Africa.
Il sentore di essere finalmente davanti ad un processo di democratizzazione di Africa era già presente da alcuni anni: negli ultimi tre anni abbiamo visto svariati regimi cadere in tutto il continente, alcuni di questi dopo svariati decenni di dominio autoritario.
Un’ondata di cambiamento
Uno dei primi esempi fu quello del Gambia, piccolo paese dell’Africa Occidentale, che nel 2016 vide il dittatore Yahya Jammeh sconfitto a sorpresa dal candidato dell’opposizione Adama Barrow. Jammeh era stato al potere per 22 anni in cui abusi nei confronti dell’opposizione e violazione dei diritti umani erano comuni. Solo grazie ad un intervento militare da parte delle forze dell’ECOWAS (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) Barrow riuscì ad insediarsi dopo che Jammeh si era detto deciso a contestare i risultati.
Fu poi la volta dell’Angola, che nel settembre 2017 vide la prima alternanza al potere da 38 anni. José Eduardo dos Santos si è infatti dimesso in favore del compagno di partito João Lourenço che, tra lo stupore collettivo, si è messo al lavoro per smantellare il network di corruzione messo in piedi dal predecessore. Questo fu seguito, nello Zimbabwe, dalla caduta del 93enne Robert Mugabe, rimosso da un colpo di stato nel novembre 2017 dopo 37 anni al potere, con il successore Emmerson Mnangagwa, che si affrettò a dichiarare il paese “open for business”.
Abbiamo visto anche il Sud Africa dare segni incoraggianti. Il più ricco degli stati africani ha visto, nel febbraio 2018, le dimissioni del controverso presidente Jacob Zuma, inseguito da anni da accuse di corruzione. Al suo posto è stato eletto Cyril Ramaphosa, il quale aveva guidato l’opposizione interna all’ANC (il partito di maggioranza assoluta in Sud Africa dai tempi della fine dell’apartheid) proprio sui temi di corruzione e di clientelismo, comuni nell’era Zuma.
Più recentemente segnali di cambiamento arrivano da due degli stati più instabili della regione: la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e il Sudan. Infatti, entrambi gli stati, vittime di guerre ed instabilità per buona parte della seconda metà del secolo scorso, hanno visto sorprendenti cambi alla leadership.
Nel dicembre del 2018 il presidente della RDC, Joseph Kabila, in carica dal 2001 (quando ereditò la carica dal padre Laurent-Désiré Kabila, che a sua volta aveva preso il potere in seguito alla Prima Guerra del Congo), finalmente organizza un’elezione. Questa arriva dopo più di due anni dalla fine del suo mandato costituzionale quando già in molti dubitavano dell’intenzione di Kabila di cedere il potere. Le elezioni, per quanto controverse, hanno visto la vittoria di un candidato dell’opposizione, Félix Tshisekedi, che ha battuto il candidato dell’ormai ex-presidente Kabila in quello che è stato il primo passaggio di potere pacifico nella storia del paese.
Infine, ad aprile del 2019 è toccato al dittatore del Sudan, il sanguinario Omar al-Bashir, lasciare il potere dopo 29 anni. Il presidente è stato vittima di proteste che, iniziate a dicembre 2018, si sono protratte, portando alla rimozione di al-Bashir nell’aprile 2019 e ad un governo di coalizione tra civili e militari per guidare la transizione democratica. L’obbiettivo sono le elezioni nel 2022 ma già si vedono notizie incoraggianti come l’istituzione di una commissione d’investigazione indipendente sugli avvenimenti di giugno, quando l’esercito uccise più di 128 manifestanti nella capitale.
Un continente strategico
Questi segnali sono particolarmente significativi dato che ci troviamo in un momento storico in cui l’Africa può mobilitarsi per sfruttare una ritrovata importanza strategica a suo vantaggio.
L’Africa è un continente in enorme crescita demografica. Entro il 2050 la popolazione africana raddoppierà, raggiungendo, secondo alcuni report, quasi due miliardi e mezzo di persone. Questo vorrà dire che oltre il 25% della popolazione mondiale risiederà in Africa (attualmente questa cifra corrisponde al 17%) in un contesto dove invece l’America e l’Europa inizieranno a spopolarsi.
Per questo motivo, negli ultimi anni abbiamo visto un crescente interesse di tutti i principali attori internazionali per l’Africa. I leader del continente si sono mossi, seppur in maniera alle volte indecisa, per sfruttare questa posizione di influenza. Per esempio, recentemente 54 paesi africani (la totalità del continente meno l’Eritrea) hanno firmato un accordo per la creazione di un’area di libero mercato all’interno di un pacchetto più ampio di riforme messe in campo dall’Unione Africana. Il Trattato di Libero Commercio Continentale Africano (TLCCA), una volta in funzione, creerebbe un’area di libero scambio da 1.3 miliardi di persone. Questa sarebbe la più grande mai istituita e potrebbe portare un’ondata di sviluppo mai vista nel continente, dove l’interscambio tra vicini è ancora soltanto il 16% del totale, un dato lontano dai livelli europei, dove il 65% degli scambi avvengono a livello continentale. Inoltre, in un mondo che vede la Cina e l’India sempre più interessate a tessere rapporti commerciali con l’Africa, la creazione di un’area di libero scambio in grado di negoziare accordi commerciali come un’unica entità darebbe un vantaggio decisivo ai paesi africani in quanto appianerebbe la differenza di potere con tali superpotenze demografiche.
In questo modo, a più di 40 anni dalla fine del dominio coloniale europeo, gli africani potrebbero finalmente beneficiare da una nuova “Corsa all’Africa”.
Il bisogno di trasparenza
I cittadini potranno sfruttare al massimo questa serie di convergenze strategiche solo se ci sarà un maggiore livello di trasparenza. Solo in un regime di democrazia, in cui i cittadini hanno un ampio livello di controllo sui propri governanti questo può essere raggiunto. Con un regime politico basato sulla competitività gli africani potranno scegliere la forma di globalizzazione che preferiscono e che funzioni per loro, superando il modello di sfruttamento visto fino a questo momento, dove le élite sfruttavano il loro potere per assicurarsi ricche tangenti e il controllo del tessuto produttivo del paese, provocando situazioni come quella della RDC.
Qui l’ex presidente Kabila e la sua famiglia ancora controllano più di 80 attività commerciali, 71 mila ettari di terreno coltivabile e permessi di estrazione mineraria per più di 700 chilometri lungo il confine con l’Angola, solo per fare qualche esempio. Secondo un report del Pulitzer Center on Crisis Reporting la famiglia Kabila controlla un patrimonio del valore di svariate decine di milioni di dollari mentre il PIL pro capite nella RDC rimane uno dei più bassi del mondo, a 460 dollari nel 2017.
Vero cambiamento o riforme di facciata?
Nonostante i segnali incoraggianti visti negli ultimi anni, ancora persistono diverse criticità che potrebbero indicare che ci troviamo di fronte ad un fuoco di paglia.
Non sarebbe neanche la prima volta che il mondo guarda con speranza alle possibilità di democratizzazione in Africa per poi rimanere deluso. Senza scomodare l’esempio del tradimento delle romantiche lotte di liberazione da parte di leader rivoluzionari trasformati in cleptocrati, già alla fine degli anni ’90 l’allora presidente degli Stati Uniti d’America, Bill Clinton, parlava di una nuova generazione di leader africani destinati a cambiare la faccia del continente diffondendo democrazia e benessere. Questa “nuova generazione di leader africani” poi si rivelò essere per molti solo l’ennesimo buco nell’acqua man mano che le tendenze autoritarie di leader come Yoweri Museveni (Uganda), Paul Kagame (Ruanda) e Isaias Afewerki (Eritrea) divennero più chiare. In particolare, tutti i leader nominati sono ancora al potere e conducono alcuni dei regimi più oppressivi del continente. Per di più, in risposta alle reazioni della comunità internazionale alle recenti politiche del già citato Abiy Ahmed, viene naturale ricordare come un altro membro di questa “nuova generazione di leader africani”, Meles Zenawi, fu uno dei maggiori responsabili per l’istituzione del regime etiopico dopo essere stato considerato un sincero democratico durante i suoi primi due mandati.
Anche questa nuova ondata di cambiamento ha visto molte criticità e problemi.
Personaggi come João Lourenço ed Emmerson Mnangagwa sono considerati troppo vicini ai precedenti regimi per essere in grado di portare vero cambiamento. Le mosse del primo per smantellare l’apparato clientelistico del predecessore vengono considerate da alcuni una vendetta personale, più che una seria lotta alla corruzione dilagante nel paese. Il secondo ha subito mostrato il suo vero volto quando, in seguito ad elezioni truccate, ha represso le proteste della popolazione nel sangue, provocando decine di morti, centinaia di feriti e facendo ricorso all’uso di tortura.
Nella RDC invece, il nuovo presidente, eletto in seguito ad elezioni i cui risultati sono quasi universalmente considerati truccati, non sembra intenzionato a toccare il network di aziende appartenenti alla famiglia del suo predecessore Kabila. Infatti, in molti affermano che è stato Kabila stesso a mettere Tshisekedi al potere per poter mantenere il suo controllo sul paese. Tshisekedi sarebbe stato preferito all’altro candidato dell’opposizione, Martin Fayulu, considerato molto più ostile agli interessi dell’ex presidente. È inoltre interessante vedere come la coalizione costruita intorno a Kabila sia riuscita a mantenere un controllo decisivo sul parlamento, costringendo nei fatti il presidente a stringere un accordo per formare un governo.
Un futuro incerto