Il pilastro assente dell’Unione europea
Come siamo arrivati a questa impasse? La risposta a questa domanda si trova nell’assenza di un pilastro politico all’interno dell’Unione che possa garantire la completa cooperazione dei Paesi membri, in tempi di crescita come di crisi. La mancanza di una vera unione politica si era già fatta sentire durante la crisi finanziaria del 2008-2009, quando sia gli Stati Uniti che il Regno Unito avevano velocemente integrato delle politiche monetarie poco convenzionali per frenare la recessione. L’uso del quantitative easing e il quasi istantaneo taglio dei tassi d’interesse aveva messo in mostra la capacità di Washington e Londra di agire velocemente contro l’emergenza economica. L’Ue, d’altro canto, aveva fatto molta più fatica a intervenire repentinamente. La mancanza di un’unione politica e di un meccanismo che avrebbe permesso di prendere decisioni efficaci e in poco tempo rallentò pesantemente la creazione di un sistema di condivisione del rischio, quale poi divenne il Meccanismo europeo di stabilità. A risentire di questa lentezza fu anche la Banca centrale europea: Mario Draghi annunciò il futuro lancio del quantitative easing europeo solo nel luglio del 2012.
Unione politica tra ideali e realtà
Se di fatto un’unione politica tra i Paesi Membri non rappresenta oggi la realtà, essa era comunque parte dell’originale progetto europeo messo a punto da Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Ue. La sua idea iniziale prevedeva che il progetto europeo dovesse essere di natura politica. In seguito allo scetticismo di alcuni Stati però, Monnet dovette accontentarsi di avviare l’integrazione partendo dall’aspetto economico. Egli era sostenitore della cosiddetta teoria della “reazione a catena”, secondo la quale la progressiva integrazione economica, iniziata con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, avrebbe portato a piccoli passi la condivisione a livello sovranazionale di altre funzioni.
Monnet era convinto del fatto che a persuadere gli Stati della necessità di una fusione sul piano politico non sarebbero stati solo i benefici, bensì anche le lacune che sarebbero emerse dalla stessa integrazione economica non accompagnata parallelamente da un’integrazione politica. Oggi sappiamo che le cose non sono andate così. Se da un lato la cooperazione economica si è approfondita, con la creazione del mercato comune e dell’unione monetaria, dall’altro essa, invece di spingere verso l’unione politica, per ora l’ha sostituita. Questo fatto è ben sottolineato anche dal fallito tentativo di adottare una Costituzione europea. Proposta nel 2005, avrebbe dovuto sostituire i trattati fondativi, ma il rifiuto dell’Olanda e, per ironia della sorte, della Francia patria di Monnet pose fine alla sua ratificazione.
Oggi l’unione politica appare distante anche a causa dell’eterogeneità tra i suoi Paesi membri, cresciuta in particolare a partire dal 2004, anno che ha marcato l’espansione più importante dell’Unione con l’integrazione di dieci Paesi dell’Est Europa. Del resto, l’apertura a nuovi membri era stata preceduta da un periodo di riflessione in cui alcuni si chiesero se sarebbe emerso un trade-off tra espansione e approfondimento dell’integrazione tra i Paesi già facenti parte dell’Ue. Ma non sono solo le differenze tra Stati a ostacolare la strada verso una maggiore cooperazione politica. Vi contribuiscono infatti anche le divisioni interne ai Paesi, dove i partiti sovranisti negli ultimi anni hanno raccolto grandi consensi e ravvivato l’antieuropeismo.
Verso più integrazione o scontro contro la disintegrazione?
Di fatto, l’Unione europea è arrivata a un punto in cui deve scegliere se fare un passo avanti, e quindi integrarsi anche dal punto di vista politico, oppure lasciare le cose come stanno, rischiando però una disintegrazione della cooperazione sin qui costruita fra i suoi membri. Tra i Paesi interessati a una maggiore integrazione vi è l’Italia (seppur con evidenti divisioni interne), che per prima con il premier Conte ha avanzato l’idea di emettere eurobond. Anche la Francia di Macron aveva espresso entusiasmo per una soluzione simile. La Germania di Angela Merkel invece, inizialmente si era mostrata riluttante ad adottare una misura così audace. Tuttavia, l’accordo trovato di recente con la Francia sembra aver permesso alla Germania di superare almeno in parte questa rigidità.
Se la proposta di emettere eurobond è stata sin qui travagliata, gli sviluppi dell’ultimo periodo portano infatti nuove speranze in questo senso. Il 18 maggio, in una conferenza comune, Macron e Merkel hanno reso noto un accordo fra Parigi e Berlino che permetterebbe la creazione di un programma di recupero economico per l’Ue da 500 miliardi di euro. Poco più di una settimana dopo, il 27 maggio, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha illustrato la proposta di un Fondo per la ripresa da 750 miliardi per aiutare gli Stati Ue a uscire dalla crisi economica causata dal coronavirus. Gli aiuti sarebbero finanziati proprio tramite l’emissione di titoli da parte delle istituzioni europee: un vero e proprio debito comune. Dal pacchetto “Next generation Ue” proposto dalla Commissione l’Italia risulta inoltre il Paese che riceverebbe più aiuti di tutti: 82 miliardi in sovvenzioni e 91 miliardi in prestiti. Il progetto deve essere ancora approvato dai 27 Paesi dell’Unione e la discussione inizierà solo il prossimo 17-18 giugno, in occasione del Consiglio europeo. È però innegabile che la proposta, impensabile fino a pochi mesi fa, rappresenta già in sé un piccola rivoluzione all’interno dell’Ue.
La mancanza di un pilastro politico è un problema ricorrente, che affligge la capacità dell’Unione europea di rispondere alle crisi. L’eterogeneità economica, culturale e politica dei Paesi membri ne è la principale causa. Resta da vedere se la recessione provocata dal Covid-19 porterà effettivamente nuova linfa al progetto politico europeo.