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Le proteste post Brexit possono porre fine al Regno Unito

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Mai tregua. Non solo Irlanda del Nord, ma anche la Scozia torna ad agitare lo spettro della secessione. Lo fa nelle parole della sua premier, l’indipendentista Sturgeon, che rilancia sulla convocazione di un referendum per l’indipendenza scozzese dalla Corona.

Ad alimentare nuovamente le tensioni interne all’isola, oltre alle celebri questioni religiose e culturali, si notano oggi gli effetti della Brexit, un evento storico accolto molto diversamente nelle varie nazioni che compongono il Regno Unito.

Brexit: ragioni e “regioni”

Quando il 24 giugno 2016 sono stati comunicati i risultati del referendum, si è visto subito come quel 51,9% della popolazione britannica che aveva optato per il “Leave” provenisse da alcune aree in particolare: dal Galles, con il 52,33% dei suoi cittadini favorevole all’uscita del Regno Unito dall’Ue, e dall’Inghilterra (53,40%), fatta eccezione per l’area strettamente londinese, con il 59,93% dei voti per il “Remain”. Il fronte dei contrari alla Brexit ha invece potuto contare sulla maggioranza dei cittadini di Scozia (62%) e Nord Irlanda (55,18%), oltre che sulla quasi totalità di quelli del piccolissimo territorio d’Oltremare Gibilterra (95,9). Come mai queste differenze di vedute tra nazioni costitutive di uno stesso Stato?

Secondo Limes, il referendum sulla Brexit è stato voluto quasi esclusivamente dagli inglesi, e non tanto per il progressivo raffreddarsi dei rapporti con l’Ue. Nonostante la campagna referendaria per il “Leave” fosse basata su argomenti quali la scarsa sovranità britannica rispetto all’Ue e l’immigrazione incontrollata, con la Brexit gli inglesi avrebbero voluto più che altro riaffermare la loro posizione egemone sulle altre nazioni che compongono il Regno Unito. L’ormai celebre referendum del 2016 si presta quindi a considerazioni ulteriori rispetto a quelle spinte dalla propaganda: gli inglesi avrebbero infatti ritenuto che, grazie alle conseguenze sui trattati internazionali causate dalla Brexit, la Gran Bretagna sarebbe tornata in una posizione di dominio, con confini marittimi molto ben definiti. L’uscita dall’Ue è stata quindi anche, e soprattutto, la scommessa di Londra per tentare di mantenere unito quello che, storicamente, è uno Stato tutt’altro che convenzionale.

Scozia: tra indipendentismo, strategie inglesi e sguardi al nord

Il primo referendum sull’indipendenza scozzese dal Regno Unito (2014), pur conclusosi con la vittoria del No (55,30%) ha rappresentato per Londra un forte campanello d’allarme, tanto che Downing Street prima del voto aveva dichiarato l’intenzione di porre un veto in ogni caso a qualsiasi progetto indipendentista scozzese.
I timori inglesi sull’indipendenza di Edimburgo non derivano soltanto da una questione identitaria, ma anche dal fatto che la Scozia è un territorio fondamentale dal punto di vista strategico e militare. Essa rappresenta infatti lo sbocco della Gran Bretagna sul Mare del Nord, e perderne il controllo marittimo e militare significherebbe esporsi a potenziali attacchi da settentrione. La Scozia è inoltre sede di importantissime basi militari britanniche, ospitando addirittura quattro sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare.

L’indipendentismo scozzese non è un’ambizione che ha preso il via sette anni fa, ma ha radici ben più profonde. Le prime campagne in favore di forme di autogoverno risalgono infatti addirittura alla seconda metà del XIX secolo, mentre la vera e propria indipendenza della Scozia iniziò ad occupare un ruolo abbastanza importante nel dibattito pubblico a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, anche grazie alla scoperta del petrolio del Mare del Nord, a largo della costa orientale.
L’attivismo di formazioni politiche come il Partito Nazionale Scozzese ha poi fatto sì che negli anni venissero proposti ben due referendum per la devoluzione, uno nel 1979 (fallito nonostante il 51,6% degli elettori avesse votato a favore di maggiore autonomia, per via della limitata affluenza alle urne) e uno 18 anni dopo; il referendum del 1997 vide il primo quesito (nascita di un Parlamento scozzese con poteri devoluti) approvato con il 74,29% e il secondo (poteri fiscali autonomi a tale Parlamento) con il 63,48%.

Sulla scia di questi risultati, si è poi arrivati al sopracitato referendum del 2014, forse un passo in avanti troppo grande per quel momento storico, dato che nonostante i numeri raggiunti dagli indipendentisti ha prevalso la volontà di restare con la Gran Bretagna. Malgrado l’esito del referendum, però, continua la ricerca da parte di Edimburgo di una maggiore libertà politica, anche cavalcando il malcontento post-Brexit; recentemente, diversi rappresentanti delle istituzioni scozzesi stanno compiendo notevoli passi in direzione del Paesi scandinavi, affermando come la Scozia condivida con questi ultimi usi, costumi e persino la lingua del nord. Quelle che a prima vista potrebbero sembrare delle affermazioni forzate fanno parte in realtà di una strategia ben precisa: sfruttare la propria posizione geografica per garantirsi una certa autonomia da Londra

Irlanda del Nord: oltre la religione

L’Irlanda del Nord è nella memoria collettiva l’emblema della causa indipendentista irlandese contro il dominio inglese. L’acuirsi di tali disordini risale alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, quando i cattolici nordirlandesi, in minoranza rispetto ai protestanti, diedero vita alle prime manifestazioni per protestare contro la sudditanza verso Londra.
Il conflitto coprì quasi trent’anni, segnati da episodi di grande violenza da ambo le parti. 
Il cessate il fuoco definitivo avvenne solamente con l’accordo del Venerdì Santo del 1998, quando i vari gruppi paramilitari accettarono di deporre le armi in cambio, tra le altre cose, della garanzia della permanenza nel Regno Unito.

Tale permanenza oggi è a rischio a causa del confine (con tanto di dogana per il controllo del commercio) che è stato posto tra le due isole a seguito della Brexit, una frontiera che di fatto taglia fuori l’Irlanda del Nord, paradossalmente rimasta nel Mercato Unico Europeo per evitare l’innalzamento di un confine materiale con l’Eire, e che si ritrova invece divisa fiscalmente dal resto del Regno Unito. È proprio contro questo confine che gli unionisti protestanti si sono recentemente schierati nelle ultime settimane, per via dei danni economici e sociali che comporta. La data di inizio degli scontri, ossia il 2 aprile, Venerdì Santo 2021, ha un notevole significato simbolico, in forte discontinuità con il periodo di pace precedente.

I motivi religiosi ed identitari, come sempre, fanno quindi da vetrina per quello che ai fatti rimane un conflitto su basi economiche e sociali, una serie di nodi venuti al pettine con la decisione referendaria della Brexit nel 2016.

I prossimi mesi, nei sondaggi

Per quanto negli ultimi mesi abbiano preso piede ipotesi quali un secondo referendum d’indipendenza in Scozia o l’unificazione d’Irlanda, la reale possibilità che questi scenari si verifichino resta un punto controverso. Se da un lato è lo Scotland Act del 1998 a sancire che il Parlamento scozzese non può legiferare su materie di competenza esclusiva di Westminster (a meno che sia proprio quest’ultimo a legittimarlo, come nel 2014), dall’altro è il Good Friday Agreement a prevedere che per un’ipotetica unificazione d’Irlanda dovrebbero contestualmente ottenere maggioranze referendarie favorevoli sia in Irlanda del Nord che in EIRE, affidando in ogni caso la decisione di indire la consultazione al Ministro degli Esteri britannico. Allo stato attuale delle cose, quindi, le vie legali per una disgregazione del Regno Unito sembrano essere quantomeno impervie da percorrere.

Di certo, un importante evento per il futuro del Regno Unito è stato rappresentato dalle elezioni del Parlamento scozzese il 6 maggio scorso, dove la Sturgeon ha raggiunto il 48%. E coerentemente alle dichiarazioni di allora, la forza indipendentista sembrerebbe decisa ad andare fino in fondo indicendo un secondo referendum per l’indipendenza a discapito delle dichiarazioni di Londra. 

Nubi grigie all’orizzonte quindi, per un Regno Unito che, al di là della sua abitualità con questo genere di clima, rischia nel prossimo futuro di veder seriamente messa in discussione la sua unità interna, quantomeno da un punto di vista di opinione pubblica.

Vittorio Fiaschini
Nato a Perugia 22 anni fa, dopo una triennale in Economia e finanza studio Economics of government and international organizations alla Bocconi. Amante di sport, cinema e storia, la mia passione numero uno è però la politica. Fanatico della Prima Repubblica, dico frequentemente "quando c'era lui", ma con riferimento a De Gasperi.

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