L’universo liberale targato Stati Uniti si contraddistingue(va) per due pilastri: quello economico, ovvero il capitalismo aperto, e quello politico sotto forma di democrazia liberale. Dopo più di 40 anni di Guerra Fredda, il conflitto fra due visioni diametralmente opposte del mondo, la vittoria dell’Occidente ha segnato l’inizio del decennio americano. Infatti, dal bipolarismo Usa-Urss, si è passati all’egemonia americana. Così, gli Stati Uniti, sempre seguiti dall’Unione europea, hanno potuto affermare un ordine con al centro l’individuo e le sue libertà. Sono passati quasi 30 anni ormai, e questa concezione del sistema internazionale vive oggi la sua più grande crisi.
Riguardo alle cause di questo declino, in questo articolo ne identifichiamo quattro: la globalizzazione, alcuni effetti della rivoluzione digitale, la paura, ed infine il comportamento americano stesso dal 1989 in poi.
Dalla fine della Guerra Fredda il mondo ha conosciuto un fenomeno economico e non solo eccezionale: la globalizzazione. Infatti, l’estensione dell’economia di mercato a tutti i paesi ex-sovietici, l’entrata della Cina nel Wto (Organizzazione Mondiale del Commercio) nel 2001, e la rivoluzione digitale hanno diffuso standard socio economici comuni in tutto il mondo. L’obiettivo dell’estensione di questo assetto economico era portare pace e benessere in tutte le aree del pianeta. Tuttavia, la mancata gestione accurata di questa grande spinta al progresso ha causato l’emergere dell’altra faccia della globalizzazione: la disuguaglianza. Da un lato, la popolazione in condizioni di povertà si è ridotta dal 30% del 1990 a meno del 10%, come dimostra uno studio della Banca Mondiale del 2016. Dall’altro però, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi è sempre più evidente, come documentano tutti gli indicatori di diseguaglianza, e questa forbice si è accentuata sia tra paesi che intra paese. Ma come si spiega questa deriva della globalizzazione? Una risposta l’ha ipotizzata il professor Mario Monti ad un incontro tenutosi recentemente all’università Bocconi. Secondo l’ex-premier, l’assenza di un grande competitor degli Stati Uniti dopo il 1989 ha fatto sì che il sistema capitalistico non cercasse più di risolvere i suoi difetti per accaparrarsi anche la fetta di popolazione più in difficoltà, e quindi più vicina al sistema comunista. Si è così adagiato su se stesso, lasciandosi andare a tutti gli eccessi e portando con sé tutte le sue contraddizioni.
Il secondo fattore riguarda la rivoluzione digitale ed in particolare l’introduzione dei social media. Ma perché essi sono così rilevanti per i destini dell’ordine mondiale? Perché la comunicazione sta giocando oggi un ruolo fondamentale nella politica internazionale e nazionale. I social media hanno eliminato gli intermediari tra l’élite e il “popolo”, dando voce a forze sovversive dell’ordine liberale, ovvero i sovranisti/populisti. In più, queste piattaforme hanno ucciso uno degli aspetti fondamentali della democrazia liberale, ovvero il dialogo. Sui social un individuo accede ad un gruppo ristretto di persone, spesso affini per pensiero ed interessi, ed è libero di affermare ciò che vuole senza la possibilità di una ribattuta e quindi di confronto. Questo mette in seria difficoltà la stessa concezione di democrazia, basata ontologicamente sulla forma dialogica di comunicazione e sul multiculturalismo.
Il terzo fattore che ha messo in crisi l’ordine liberale è la paura. L’11 settembre è stato infatti un punto di svolta decisivo. In primis, perché l’organizzazione terroristica al-Qaeda ha dimostrato al mondo liberale di essere in grado di colpire addirittura al cuore di esso. In secondo luogo, perché la successiva invasione in Afghanistan, e soprattutto la campagna irachena lanciata dal presidente americano Bush nel 2003 hanno poi causato l’ascesa dello Stato Islamico. Questi terroristi sono riusciti in pochi anni a far percepire all’Occidente, e soprattutto all’Europa, un senso di mancata protezione dell’incolumità fisica che si andava a sommare con il desiderio di protezione economica, causato come detto dalla globalizzazione.
Infine, un quarto elemento riguarda la condotta americana negli anni Novanta e nei primi anni 2000. Sempre riprendendo il professor Monti, sembra quasi che gli Stati Uniti, una volta emersi come egemoni dell’ordine mondiale, non siano stati capaci di gestire questo enorme potere e di farsi garanti di un modello di democrazia. Infatti, prima Clinton e poi Bush avevano già minato uno dei due pilastri della politica estera americana: il multilateralismo. Invero, tutti e due hanno spesso evitato di affidarsi alle grandi organizzazioni internazionali, lanciando campagne a guida americana con a seguito piuttosto una “coalizione di volenterosi” (come la guerra in Afghanistan), mantenendo però l’obiettivo di rafforzare quell’ordine del mondo con a capo loro stessi. Successivamente però Obama ha invertito le cose: sempre più riluttante ad intervenire nei maggiori teatri internazionali, come attesta il suo atteggiamento nei confronti della Libia o della Siria, il presidente americano aveva identificato la soluzione nel multilateralismo. Segnale di questo è per esempio l’accordo sul nucleare iraniano Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action), raggiunto dopo un grande sforzo diplomatico congiunto con le potenze europee. Infine Trump, che rappresenta solo una manifestazione e non la causa della crisi dell’ordine internazionale, esprime il completo rigetto per tutti e due i pilastri: l’annuncio del ritiro delle truppe dall’Afghanistan da una parte, i numerosi attacchi alla credibilità della Nato dall’altra, sono solo due esempi che mostrano come sia di multilateralismo che di garanzia dell’ordine internazionale il tycoon non voglia sentir parlare.
Abbiamo quindi capito che il mondo liberale come lo conosciamo è davvero in crisi. La sfida non è più dentro un sistema, ovvero quello democratico, ma fra sistemi: come dimostra il leader ungherese Orban, la proposta è quella di cambiare lo stesso assetto politico, non alcuni suoi aspetti. Egli ha infatti affermato di voler guidare una “democrazia illiberale”, che vede come modelli stati quali la Russia, la Cina o la Turchia. Stati che risolvono il compromesso libertà-protezione rispondendo ad un ingente bisogno dei cittadini scambiando i servizi di protezione con le libertà individuali. Ecco quindi che la lotta fra sistemi emerge, e questa mette in luce la più grande sfida che questo secolo ci presenta: la sfida dell’identità (l’”identity politics”). Negli stati occidentali, questo compromesso è stato spesso ignorato. Ed oggi, vista la salita imperiosa di sovranisti e populisti che minacciano questo equilibrio alzando muri e alimentando divisioni, è forse l’ultima chiamata per gli stati garanti di questo sistema per riaffermare la propria identità, andando incontro ai bisogni dei cittadini e correggendo gli eccessi e le contraddizioni che questo ordine mondiale ha fatto emergere.