I primi passi verso il Polo
Era il 28 Marzo 2013. Xi Jinping, Presidente della Repubblica Popolare Cinese (RPC), annunciava per la prima volta il progetto della Belt and Road Initiative (BRI), presentata poi comunemente dai media italiani come la nuova Via della Seta. Alcuni mesi dopo, il 15 maggio, le veniva conferito il ruolo permanente di Paese Osservatore presso l’Arctic Council, una organizzazione internazionale fondata nel 1996 per supervisionare il rispetto dell’AEPS (Arctic Environmental Protection Strategy, o “Strategia di Protezione Ambientale dell’Artico”).
Le superpotenze che storicamente dominano il Consiglio sono gli Stati Uniti e la Russia, e tutte le decisioni rilevanti vengono prese dai cosiddetti Arctic Five (Canada, Danimarca, Norvegia, Russia e USA) o al massimo dagli Arctic Eight (gruppo che include anche Finlandia, Islanda e Svezia). Vista la poca possibilitĆ decisionale, la Cina decise di fondare, nel dicembre 2013, una delle sue istituzioni alternative, strumento giĆ ampiamente collaudato per affrontare indirettamente l’egemonia atlantica in tutte le organizzazioni internazionali. Si tratta del China-Nordic Research Center (CNARC), composto da nove universitĆ dei Paesi nordici (una danese, una finlandese, una svedese, due islandesi e quattro norvegesi) e otto istituti cinesi. Questo forum, riunitosi l’ultima volta in un “simposio” a TromsĆø nel maggio 2018, si occupa prevalentemente di tematiche ambientaliāla Cina, molto legata al tema ambientale, ha sottoscritto il Protocollo di Kyoto del 1997 e gli Accordi di Parigi del 2015ā, ma anche di cooperazione economica e legislazione internazionale.
Una “Via Polare della Seta”
Il disegno della Cina sull’Artide cominciò a farsi più chiaro il 15 maggio 2017, con l’annuncio dell’ampliamento della BRI con una Via Polare della Seta. A seguire fu pubblicato, il 26 gennaio 2018, il primo White Paper della RPC, intitolato China’s Arctic Policy (“la politica cinese nell’Artico”), documento secondo il quale la Repubblica Popolare si impegnava a “comprendere, sviluppare e partecipare all’amministrazione dell’Artide” in virtù dei propri interessi ambientali e commerciali – scaricabile qui.
La strategia cinese della BRI ĆØ la stessa su tutti e tre i percorsi (marittimo, terrestre e polare): investire massicciamente in infrastrutture (la Cina utilizza a questo scopo un sofisticato sistema di aziende private controllate dallo Stato) che tutelino gli interessi del Dragone e facilitino la connessione tra zone sensibili.
Un chiaro esempio di questa modalitĆ d’azione ĆØ dato dal progetto Yamal LNG (Ямал Š”ŠŠ il nome ufficiale), che include la produzione e il trasporto di gas naturale attraverso la costruzione di un impianto di estrazione nella penisola di Yamal. La compagnia russa Novatek (ŠŠ¾Š²Š°Ńек) possiede il 50,1% del progetto, seguita dalla francese Total con il 20%. La restante parte appartiene alla Cina, diviso in un controllo diretto del 9,9% attraverso il Fondo per la Via della Seta (Silk Road Fund) e indiretto del 20% attraverso la controllata statale China National Petroleum Corporation (äøå½ē³ę²¹å¤©ē¶ę°éå¢å ¬åø).
Il Polar Research Institute of China (PRIC) ha inoltre cominciato a costruire la Xue Long II (éŖé¾, lett. “Dragone di Neve”), una nave rompighiaccio a propulsione nucleare che sarĆ ultimata nel 2019. La Cina sarĆ la terza potenza al mondo, dopo Russia e Stati Uniti, a possedere un mezzo del genere.
Gray-Zone Conflicts tra Stati Uniti e Cina
Seguendo un modus operandi di cui Orizzonti Politici ha giĆ parlato in passato, la Cina sta dunque espandendo sempre più la propria sfera di influenza, mettendo in discussione il ruolo di poliziotto del mondo occupato dal suo rivale, gli Stati Uniti, fin dalla caduta dell’Unione Sovietica.
Come ha segnalato Francesca Squillante nel suo articolo del 5 novembre su questo blog, l’Occidente ha giĆ commesso tre errori strategici, principalmente nel fronteggiare questa nuova superpotenza emergente. PerchĆ© dunque ora non si oppone in modo diretto alla Repubblica Popolare?
La risposta si trova nelle insidiose modalitĆ che la Cina sfrutta per acquistare il proprio potere. Si tratta infatti di ciò che gli studiosi chiamano gray-zone conflicts, lett. “conflitti nella zona grigia”. Secondo la definizione adottata dallo U.S. Special Operations Command,
“[Essi] sono definiti come interazione competitiva tra – e all’interno di – Stati o attori non-statali che si trovano nel mezzo della tradizionale diade di guerra e pace”.
In particolare, la Cina sfrutta ampiamente uno strumento di guerra commerciale apparentemente pacifico, che consiste nel portare altri Paesi a indebitarsi fortemente nei suoi confronti per poter costruire infrastrutture, e costringerli poi a cedergliele per ripagare quegli stessi debiti.
In particolare, l’oggetto di questo tipo di scontro per quanto riguarda la corsa al Polo ĆØ la Groenlandia. Possedimento della regina Margrethe II di Danimarca, la Groenlandia ĆØ un’immensa regione strategica nella zona artica, a bassissima densitĆ abitativa. Il governo di Nuuk, la capitale, ĆØ alla costante ricerca di una maggiore autonomia da Copenhagen. Proprio questa landa inospitale ĆØ l’oggetto di un gray-zone conflict con la Cina, intenzionata a finanziare la costruzione di tre aeroporti e di altre infrastrutture, soprattutto di estrazione mineraria.Ā Questo interesse preoccupa notevolmente le autoritĆ della capitale danese, che guardano con sospetto l’avanzata asiatica.
La Groenlandia ĆØ di cruciale interesse anche per gli Stati Uniti in quanto costituisce un punto dominante per il controllo e la protezione del cosiddetto GIUK gap, ovvero la linea ideale tra i tre Paesi che ne costituiscono la sigla inglese (Greenland, Iceland, United Kingdom), passaggio obbligato dall’Oceano Artico all’Oceano Atlantico. Gli USA non demorderanno dunque facilmente, soprattutto visto il crescente interesse dell’amministrazione Trump per la zona Artica, con l’apertura di siti di estrazione off-shore al largo dell’Alaska.
Che cosa vuole davvero il Dragone
Tutti questi tentativi indicano chiaramente la ferma intenzione cinese di ricoprire un ruolo di primo piano nell’Artide. Lo conferma l’interesse per alcuni porti lungo la cosiddetta Northern Sea Route (lett. “Via marittima del Nord”, ma solitamente chiamata con l’appellativo inglese). Il Financial Times riporta infatti della visita da parte dell’ufficiale Wang Yang ad Arcangelo (ŠŃŃ Š°Š½Š³ŠµŠ»ŃŃŠŗ, traslitterato Arkhangel’sk) per proporre investimenti da parte della cinese Poly Group nella cittĆ portuale, termine strategico della Northern Sea Route da cui dovrebbe poi partire una ferrovia che trasporti le merci nell’immenso entroterra.
L’operatore portuale China Merchants Group avrebbe invece manifestato interesse per i porti di Kirkenes, in Norvegia, e KlaipÄda, in Lituania, oltre che in due altri porti non meglio localizzati in Islanda.
Tuttavia, scrive Andrea Migliuolo per Limes, “sembra […] chiaro come il passaggio a nord-est non sia una reale alternativa ai flussi di traffico […] attraverso il Canale di Suez” (enfasi aggiunta). Il giornalista elenca infatti una serie di motivi per cui alla Cina non converrebbe preferire questa via a quelle tradizionali, a cominciare dai costi e dalla distanza dai principali porti cinesi, fino ad arrivare alla percorribilitĆ limitata della Northern Sea Route, che ĆØ libera da ghiacci solo da luglio a novembre. Inoltre, la zona ĆØ ancora controllata dalla Russia. Che cosa spinge dunque la Cina a spendersi con cosƬ tanto impegno sull’area?
Potrebbero esserci due motivazioni. La prima ĆØ una ragioneĀ logistica: infrastrutture come queste conferiscono alla Cina un grandissimo vantaggio in caso di guerra, sia essa convenzionale o commerciale. Tuttavia, la RPC sta investendo molto denaro, come abbiamo visto, non solo nelle infrastrutture, ma anche nella ricerca schientifica. La conseguenza logica ĆØ che la Cina si stia preparando ad avere un vantaggio nel controllo delle fonti di energia dell’Artide, che, con il passare del tempo, saranno sempre più accessibili e sempre più indispensabili, anche in vista dell’esaurimento delle riserve che conosciamo attualmente.