Il soft power cinese nel mondo arabo
Le relazioni tra la Cina e il mondo arabo sono una delle pagine più rilevanti della diplomazia cinese. Sin dalla fine degli anni ’50 Pechino ha dato avvio a una serie di relazioni diplomatiche formali con i Paesi arabi, culminate poi nell’istituzione del China-Arab States Cooperation Forum (CASCF), una partnership strategica nata nel 2004, volta a promuovere la cooperazione e lo sviluppo in vari settori.
L’interesse di Pechino per il Medio Oriente nasce con la prospettiva di una sicurezza energetica, con l’enorme domanda cinese di idrocarburi in gran parte soddisfatta dai paesi MENA. Inoltre, la Cina ha progressivamente aumentato il volume delle proprie esportazioni in alcuni Paesi arabi, ponendo quindi l’economia ed il commercio al centro delle relazioni sino-arabe. In particolare, le relazioni della Cina con il Medio Oriente ruotano intorno alla Belt and Road Initiative (Bri), un programma di investimenti transcontinentale a lungo termine lanciato nel 2013 e focalizzato sull’integrazione economica dei Paesi Afro-Eurasiatici.
Al momento, le relazioni della Cina si concentrano sugli Stati del Golfo, per il loro ruolo predominante nei mercati energetici. Appare quindi evidente come il mondo arabo sia diventato di primaria importanza per la Cina dal punto di vista strategico, principalmente grazie ai legami con i mercati internazionali e le vaste riserve di petrolio. Questo contribuirebbe a spiegare la crescente importanza strategica dei Paesi arabi per Pechino, che li ha resi i bersagli principali del proprio soft power, economico così come culturale.
Un Islam sempre più “cinese”
Nel corso degli anni, infatti, la Cina ha avuto modo di estendere il proprio soft power all’interno della regione MENA grazie, ad esempio, alla Chinese Islamic Association, stabilita nel 1953 e presieduta dall’allora governatore del Xinjiang – una regione nella Cina occidentale che ospita un’ampia comunità musulmana turcofona. La rilevanza di tale organizzazione è cresciuta negli ultimi anni, in particolare a partire dal 2018 quando il presidente, Yang Famming, durante un discorso ha esortato i propri compagni musulmani ad “aderire alle pratiche locali”. Questa dichiarazione è parte di una campagna ideologica attuata sotto Xi Jinping, volta a “sinizzare” le religioni presenti all’interno Paese. Concretamente si aspira quindi a ridurre i legami visibili tra l’Islam in Cina e l’Islam nel mondo arabo attraverso la promozione di un Islam “con caratteristiche cinesi”, finalizzata a diminuire la vicinanza delle comunità mediorientali nei confronti di quella uigura.
Un altro esempio di soft power cinese nel mondo arabo è quello della Hajj diplomacy: sebbene lo hajj, il pellegrinaggio annuale a La Mecca svolto dai fedeli musulmani, sia normalmente svincolato da interferenze di tipo politico, la sua natura lo ha reso una preziosa opportunità di influenza da parte di Pechino. Infatti, lo scorso ottobre 2020 il governo cinese ha pubblicato un regolamento sulle questioni relative allo hajj, rendendo la Chinese Islamic Association l’unica organizzazione legittimata a organizzare pellegrinaggi per i cinesi musulmani. Anche tramite un’accurata selezione delle delegazioni musulmane cinesi da inviare in pellegrinaggio a La Mecca, Pechino riesce ad assicurarsi che venga promossa un’immagine positiva e tollerante della Cina in Medio Oriente.
Risulta quindi chiaro come la suddetta associazione rappresenti uno strumento potente all’interno della campagna di soft power del governo cinese, di fatto garantendo a Pechino un grado di accettabilità nel mondo arabo ancora più alto di quello ottenibile con il singolo fattore economico. Ed è anche grazie al suo soft power che la Cina riesce a promuovere il silenzio della comunità islamica circa i drammatici avvenimenti nel Xinjiang.
Il silenzio del mondo arabo sulla questione del genocidio uiguro
Il Xinjiang, una regione autonoma della Cina nordoccidentale, è patria degli Uiguri, la minoranza etnica musulmana tristemente nota per le persecuzioni da parte del governo cinese.
Come denuncia Amnesty International, si stima che oltre un milione di persone siano detenute arbitrariamente e sottoposte a tortura all’interno di tali campi. Molti esponenti di queste minoranze etniche sono stati imprigionati – o hanno dovuto chiedere asilo all’estero – sotto l’accusa di terrorismo e di affiliazione con al-Qaeda. Di fatto, a seguito di atti terroristici attribuiti alla minoranza uigura quali, ad esempio, l’attacco di Kunming del 2014, Pechino utilizza la minaccia di terrorismo internazionale ed estremismo islamico per giustificare e imporre dure restrizioni contro la comunità uigura.
Il governo cinese, dal canto suo, ha negato a lungo l’esistenza dei campi di prigionia asserendo che la minoranza uigura stesse organizzando una campagna violenta per uno stato indipendente e che gli stretti controlli da parte del governo fossero finalizzati a evitare questo scenario. Allo stesso tempo, la comunità internazionale – anche esortando l’ONU a intervenire – ha espresso notevole preoccupazione in merito, condannando il trattamento delle minoranze nello Xinjiang e sollecitando la chiusura dei campi di rieducazione.
All’interno di questo complesso scacchiere spicca il silenzio dei leader e delle comunità musulmane di tutto il mondo: sebbene le violenze perpetrate verso gli uiguri siano ormai ben note, nessun capo di stato di una nazione musulmana ha rilasciato dichiarazioni pubbliche a sostegno della minoranza. Alla base di questa decisione vi sono senza dubbio motivazioni strategiche, basate sull’incidenza del soft power cinese sulle economie dei Paesi arabi. Molti governi musulmani hanno infatti rafforzato le proprie relazioni con la Cina e si sono addirittura messi in gioco per sostenerne le azioni: nel marzo 2019, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OCI) ha rilasciato un documento dove si elogiano chiaramente gli sforzi di Pechino nell’assistenza ai propri cittadini musulmani. La Cina è diventata un partner commerciale chiave delle nazioni a maggioranza musulmana e molti Paesi del Medio Oriente stanno ormai diventando economicamente dipendenti da Pechino.
Le restrizioni all’accesso della stampa e il massiccio apparato di censura del governo centrale rendono poi difficile la reperibilità di immagini relative ai campi di detenzione, osteggiandone l’opposizione da parte della società civile dei paesi mediorientali.
Infine, se da un lato la strategia di proiezione dell’influenza economica si è tradotta in una vera e propria influenza a livello politico, dall’altro, la pratica di sinizzazione dell’Islam, possibile anche al ricorso a media di Stato in lingua araba, ha distanziato la causa uigura dalla comunità islamica del mondo arabo, diminuendo l’empatia di quest’ultimo verso i crimini contro la popolazione del Xinjiang.