Da un capo all’altro del mondo, paesi come Pakistan, Sri Lanka, Marocco, Cuba e molti altri ancora, soffrono un peggioramento delle condizioni di vita generali a prescindere che siano importatori energetici o esportatori di materie prime. Questo ha portato a scelte discutibili sia nel gioco di alleanze internazionali che per quanto riguarda misure interne che danneggiano il territorio, vediamo allora il peso del ricatto energetico a cui sono sottoposti.
Mercati volatili e crisi internazionali
I mercati dei paesi a basso reddito importatori di combustibili fossili sono diventati particolarmente vulnerabili agli shock dei prezzi, vista la debolezza dell’economia domestica e l’incapacità di sostenere il confronto con le politiche d’importazione delle nazioni più solide.
Nel 2021, i prezzi dell’energia sono stati tediati dalla crisi generata dal Covid-19, e nel 2022 è arrivata poi la guerra in Europa. Basti pensare infatti che i prezzi del gas in Europa e in Asia sono aumentati di quasi sette volte nel quarto trimestre del 2021 rispetto al quarto trimestre del 2019, secondo il Fondo Monetario Internazionale, mentre nel 2022 i prezzi globali del petrolio sono aumentati di circa il 40%. Tuttavia, se economie tutto sommato solide come quelle europee hanno saputo proporre soluzioni alla crisi, guidate da istituzioni politiche che hanno intrapreso misure a sostegno dei cittadini, questo non può dirsi di molti paesi in via di sviluppo, già dilaniati da crisi interne.
In Tunisia, ad esempio, le autorità hanno aumentato i prezzi del gas e della benzina cinque volte nel corso del 2022, a febbraio, marzo, aprile, settembre e novembre. In totale, +20% per gli idrocarburi. Tra settembre e ottobre, i cittadini tunisini e i media locali hanno testimoniato scene in cui folle di persone cercavano di accaparrarsi pane e altri beni in supermercati vuoti. Il tutto, in un momento di profonda crisi politica che ha aggravato le condizioni economiche del Paese. Il 25 luglio 2021, il presidente Kais Saïed aveva sospeso l’attività del parlamento, ai sensi dell’art. 80 della Costituzione tunisina, permettendo al premier di governare senza il consenso dell’assemblea. Il 30 marzo 2022, 120 parlamentari si erano riuniti in videochiamata per votare l’annullamento delle misure eccezionali, ma lo stesso giorno il premier ha sciolto il parlamento, tacciato di colpo di stato.
Per far fronte alla crisi, il governo tunisino ha contrattato un nuovo prestito di 1,9 miliardi di dollari con il Fondo Monetario Internazionale, erogati in 8 tranche lungo 48 mesi. Eppure, questi prestiti non saranno sufficienti a un paese che negli ultimi due anni ha intrapreso un percorso di smantellamento della democrazia. Dopo gli eventi del 2021, Saïed ha portato il paese verso l’isolamento: gli Stati Uniti hanno minacciato di sospendere alcuni programmi di aiuti, anche se nella realtà non c’è stato riscontro. Il FMI ha imposto così alla Tunisia di ridurre e contenere le spese attraverso la graduale eliminazione dei sussidi, l’introduzione di un’equa tassazione, provvedere al sostegno sociale per i gruppi vulnerabili, indennizzare le famiglie a basso reddito per gli impatti del caro prezzi – molti non possono permettersi beni primari come olio, zucchero e caffè, ma anche medicine – sostenendo la buona governance e la trasparenza nel settore pubblico e promuovendo le riforme strutturali.
Il ricatto della Russia
In marzo 2022, un mese dopo lo scoppio della guerra in Ucraina che ha inasprito mercati già segnati dal Covid-19, Lo Sri Lanka è stato costretto ad aumentare i prezzi della benzina di oltre il 40% dopo che la sua rupia è scesa ai minimi storici. Proprio lo Sri Lanka sta combattendo la sua peggiore crisi economica dagli anni ‘50, con un crollo della valuta, un’inflazione galoppante e carenza di dollari per pagare le importazioni essenziali di cibo, carburante e medicine. Per far fronte a questo problema, a partire da maggio il Paese ha acquistato petrolio russo a prezzo scontato, aumentando la dipendenza da un attore politico instabile nel già complicato quadro interno.
Sono molti i paesi fragili diventati acquirenti di petrolio russo scontato, paesi colpiti dall’inflazione galoppante, tra cui Pakistan, Bangladesh e Cuba. Tutti questi stati fanno parte dei 35 Paesi astenutisi da una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a marzo che condannava l’invasione russa.
Cosa succede nel Sud America?
Con il crollo delle entrate del turismo dovute alla pandemia e l’inasprimento delle sanzioni USA sotto Donald Trump, Cuba sta vivendo una forte crisi economica che si riflette in un massiccio processo di emigrazione. Il paese è affamato di idrocarburi e ha strutture energetiche molto vecchie e compromesse, che creano spesso blackout lunghi anche otto ore. La Russia è uno storico alleato per l’importazione di greggio, assieme al Venezuela, e oggi sembra che Cuba stia ritornando a orbitare attorno a Mosca come ai tempi dell’URSS. Nel 2017, Putin ha cancellato 32 miliardi di dollari di debito cubano, avviando sempre più intensi scambi commerciali. Secondo il Financial Times, poiché Cuba non può permettersi di pagare il petrolio russo, sarebbe il Venezuela il reale compratore dell’olio nero di Putin, sotto un patto in apparenza semplice: la Russia non beneficia più dei consumi europei, perciò può inviare le grandi quantità di petrolio in avanzo ai paesi energivori del Sud America. In futuro, in caso di bisogno la Russia potrà ottenere quantità maggiori di petrolio e altri benefici di natura economica e non solo.
Eppure, sappiamo che il Venezuela è un produttore di petrolio. In realtà, la produzione è calata a partire dal 2015, come effetto delle cattive politiche pubbliche promosse dal governo di Nicolas Maduro, salito al potere nel 2014. Tra queste, l’assegnazione di appalti pubblici edili e appalti d’estrazione delle materie prime a società fedeli al regime, nonché un ambiguo sistema bimestrale per la consegna di generi alimentari. Gli impianti petroliferi di Petróleos de Venezuela SA (PDVSA) sono in cattivo stato, tanto che i processi di raffinazione da inizio 2023 sfruttano solo il 30% della capacità reale degli impianti, stimata a 1,3 milioni di barili al giorno. Le cause principali sono le epurazioni nel management del settore, avvenute per lo più a scopo politico, e la mancanza di investimenti che si potrebbero ottenere dai ricavi del petrolio stesso, se venissero equamente distribuiti. Non a caso, il 96% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e 5,4 milioni di venezuelani sono fuggiti dal Paese dal 2016, secondo i dati delle Nazioni Unite.
In Nigeria la produzione di petrolio cresce, ma chi ne beneficia?
La Nigeria è tra i top 20 produttori di petrolio al mondo, e il secondo nel continente africano, occupando il 14° posto nelle statistiche sui dati del 2021. A fronte di una media di 1,54 miliardi di barili al giorno prodotti proprio nel 2021, il paese ha subito nel 2022 gli effetti della pandemia da Covid-19 e si è ripreso solo da ottobre. L’aumento delle esportazioni di petrolio nell’ultimo trimestre del 2022 ha aumentato le entrate statali, che però non hanno beneficiato direttamente i cittadini. Il salario minimo nel 2022 rispetto al 2019 è sceso addirittura da 30 naire a 19,35, in paragone da 82$ a 26$: quali sono le cause oltre all’inflazione? Alti costi di produzione del carburante, inasprimento del debito pubblico, e soprattutto insicurezza nazionale sfociata in numerosi episodi di boicottaggio e aggressioni verso gli impianti petroliferi. La Nigeria per mesi non è riuscita a rispettare le quote di produzione dell’OPEC a causa di massicci furti di petrolio e altre difficoltà di produzione. Circa il 90% della valuta estera della Nigeria proviene dalle vendite di petrolio greggio, che sono state ostacolate da queste azioni.
Ma chi ruba il petrolio nigeriano? Una rete criminale molto articolata, che ha costruito un oleodotto illegale lungo 4 km dalla valle del Delta del Niger all’Oceano Atlantico. Una mossa che poteva essere fatta solo da gruppi organizzati con solidi investimenti alle spalle e uomini all’interno del sistema petrolifero nazionale, segno della corruzione dilagante nel paese. Le autorità affermano che più di 3,3 miliardi di dollari sono stati persi a causa del furto di greggio nel corso del 2022. Nel tentativo di frenare gli attacchi, la compagnia petrolifera nazionale Nigerian National Petroleum Company (NNPC) Limited ha assegnato un appalto miliardario di sorveglianza del gasdotto Naira a un ex leader del Movimento per l’emancipazione del delta del Niger, il governo Ekpemupolo. Questa decisione è stata aspramente criticata dagli abitanti dell’area di Isoko, che non fanno parte del gruppo di sorveglianza e hanno inviato al Senato una petizione sollevando questioni etniche e di rappresentanza.
Secondo il report di dicembre della Banca Mondiale, la crescita economica potenziale della Nigeria è ora al di sotto della crescita della popolazione e, tra le molte cause, troviamo una cattiva allocazione delle risorse tra la popolazione, carenza di grandi e medie imprese e la cosiddetta oil dominance. Si tratta di un fenomeno per cui l’economia interna di uno stato si focalizza sulla produzione e commercio di idrocarburi, mancando così investimenti in altri settori. La questione è semplice: senza investimenti non ci sono le aziende, senza le aziende non ci sono lavoratori pagati che riescono a sostenere i consumi delle famiglie e alimentare il mercato interno, perciò si cade in una stagnante povertà che colpisce appunto la Nigeria da decenni. Non a caso, il PIL pro capite della Nigeria negli ultimi due decenni è il più basso tra i paesi a reddito medio, al di sotto di Ghana, Bangladesh e Pakistan. L‘inflazione annuale ha superato il 21% nel 2022 per la prima volta in 17 anni, e il caro prezzi ha spinto circa altri 5 milioni di nigeriani in povertà nel 2022. In aggiunta a questo quadro critico, le inondazioni nelle zone agricole dovute ai cambiamenti climatici hanno ridotto il raccolto di colture quali riso e mais, aumentando i prezzi dei due beni fondamentali.
Uno stallo superabile?
Da uno spicchio all’altro del globo terrestre, abbiamo visto che gli stati fragili hanno subito un peggioramento delle condizioni di vita con gli shock nel mercato energetico e il caro energia. Correre ai ripari non è facile: si tratta in ognuno di questi casi di anni, spesso decenni, di politiche pubbliche insufficienti o addirittura controproducenti per risollevare la nazione, con istituzioni politiche instabili che sopravvivono grazie al sostegno delle grandi potenze e delle organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale. È solo istituendo un solido stato di diritto e investendo nelle risorse nazionali interne – in primis nel capitale sociale, che questi paesi in via di sviluppo potranno portare a compimento validi piani nazionali di ripresa. Il traguardo più rilevante sarebbe alleviare la crisi umanitaria e sociale che ognuno di essi sperimenta da molto tempo.
Crediti copertina: foto di Pete Linforth da Pixaby.com.