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Gli interessi della Cina dietro la guerra al COVID

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Non è un mistero che la Cina, o meglio Repubblica Popolare Cinese (RPC), stia conducendo, da almeno due settimane, una forte campagna mediatica e diplomatica per proporsi come leader mondiale nella lotta al SARS-CoV-2, il virus che causa la COVID-19.

Lo sostengono autorevoli riviste di politica internazionale, a cominciare da Foreign Affairs: sfruttando la maldestra gestione dell’emergenza negli Stati Uniti, la Repubblica Popolare ha saputo costruire una narrazione efficace e capillare, sostenuta dalla vendita massiccia di materiale sanitario, di cui è il maggiore produttore mondiale.

Questa narrazione si è però avvalsa – commenta sempre Foreign Affairs – di tattiche più simili a quelle russe: gli ufficiali cinesi hanno più volte sostenuto che l’epidemia non si sia originata nel paese, condividendo queste posizioni tramite gli account delle ambasciate.

Il Partito Comunista Cinese (PCC) sta cercando di scrollarsi di dosso l’associazione con la pandemia, originatasi nel paese e insabbiata per oltre un mese. I primi casi, infatti, sono stati ricondotti addirittura al 17 novembre, mentre le prime segnalazioni del personale sanitario risalgono circa a un mese dopo. Segnalazioni insabbiate nella burocrazia, come ricostruisce il South China Morning Post grazie all’accesso a documenti riservati del governo.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riporta che la prima segnalazione è avvenuta al 31 dicembre. The Lancet, il prestigioso giornale accademico, già il 24 gennaio aveva ricostruito che il primo contagio risale al primo dicembre.

Insomma, il Partito avrebbe cercato nuovamente di nascondere l’epidemia al mondo, come già era accaduto con la SARS nel 2002-2003. A farne le spese è stato per primo Li Wenliang, medico di Wuhan eletto a martire. Come ricostruisce il Post:

“[Wenliang] espresse le sue ipotesi [sul virus] in una chat di gruppo con altre persone, attirando l’attenzione della polizia locale, che lo accusò di diffondere notizie false e allarmistiche. […] Dopo essere stato falsamente accusato, e poi scagionato, Lì tornò a lavorare nel suo ospedale a Wuhan. Qualche giorno dopo avere visitato una paziente che poi risultò positiva al nuovo coronavirus, iniziò a sviluppare alcuni sintomi e a soffrire di una grave infiammazione delle vie respiratorie. Gli fu confermato il contagio da coronavirus e, prima di morire, Li raccontò la sua storia sui social network cinesi.”

Il goffo annuncio della sua morte ha sollevato enormi proteste sui social cinesi. Per un po’, i media nel mondo hanno raccontato della COVID-19 come della «Černobyl cinese» e dell’estesa campagna di repressione e di censura portata avanti dal PCC. Come riporta il Post:

“[S]econdo l’ong Chinese Human Rights Defenders, più di 350 persone sono state punite in vario modo in tutta la Cina per aver «diffuso voci» a proposito dell’epidemia di COVID-19 e del governo.”

Il Partito ha anche bloccato tutti i servizi di VPN, impedendo l’accesso a quotidiani esteri, e ha espulso i giornalisti del New York Times, Washington Post e Wall Street Journal.

La strategia sta funzionando anche perché i media occidentali hanno lasciato molto spazio alle dichiarazioni dei portavoce cinesi e raccontato degli arrivi in aeroplano dei carichi di dispositivi di protezione invididuale (DPI) e delle attrezzature come i respiratori.

Paesi come la Serbia, storicamente lontani dall’Europa, hanno colto l’occasione per schierarsi apertamente con il Dragone. Il Presidente Serbo, Aleksandar Vučić, ha dichiarato che la Cina è la sola che potrà aiutare il suo paese, chiamando Xi Jinping (il presidente della RPC) un fratello e amico del suo paese.

L’Italia non è da meno. Dalla Cina, sono arrivati il 12 marzo 9 medici e complessivamente 31 tonnellate di materiali così ripartiti, scrive l’ANSA:

Il velivolo ha scaricato 9 bancali con ventilatori, materiali respiratori, elettrocardiografi, decine di migliaia di mascherine e altri dispositivi sanitari inviati dalla Croce Rossa cinese a quella italiana.

È proprio quest’ultima parte quella più significativa: gli aiuti non sono quelli della RPC, bensì della Croce Rossa Cinese, la sezione nazionale dell a Croce Rossa Internazionale (CRI), organizzazione non governativa e indipendente che opera a livello mondiale. Come ricostruisce Giulia Pompili de Il Foglio, l’intervento rapidissimo si spiega con gli ottimi rapporti tra la CRI italiana e cinese: dopotutto Francesco Rocca è sia presidente della Croce Rossa italiana che della Croce Rossa Internazionale.

Tutto il contrario di quello che lascia intendere la dichiarazione del Ministro degli Esteri Luigi di Maio:, riportata dall’ANSA: «Se sei solidale ricevi solidarietà. Oggi la Cina si rialza, presto ci rialzeremo anche noi». L’affermazione, purtroppo, è scorretta, a cominciare dalla «solidarietà cinese».

Infatti, tutta l’attrezzatura ricevuta non è stata donata, come ricostruisce Pompili citando fonti della Farnesina e come conferma anche l’ANSA. Si tratta di 1.000 ventilatori polmonari, 100mila mascherine «di massima tecnologia» e 20 mila tute protettive all’Italia, oltre che 50 mila tamponi per effettuare nuovi test, rigorosamente acquistati. In particolare, i respiratori sono stati comprati da Intesa San Paolo e donati alla Protezione Civile.

Come ricorda Pompili, «La Cina, infatti, è uno dei maggiori produttori al mondo di macchine e prodotti sanitari, come appunto mascherine e respiratori» e dopo il lockdown anche i cinesi devono far ripartire la loro economia — in particolare il loro export, sfruttando il fatto che la domanda di DPI a livello mondiale è esplosa. Come riporta l’ANSA, il ministro degli esteri cinese avrebbe assicurato a Di Maio che

“[I]n queste ore da parte del governo cinese è stata data chiara indicazione alle loro aziende di esportare 2 milioni di mascherine mediche ordinarie all’Italia per l’emergenza coronavirus.”

Il ministro è impreciso anche quando afferma che la Cina si sia rialzata. Certo, la situazione è oggettivamente migliorata e nessuno può negarlo. Ma è scorretto affermare che la Cina abbia risolto il problema della COVID-19: la diffusione della malattia non è stata arrestata e anche se la principale preoccupazione sono i rientri, il paese è ben lontano dall’immunità di gregge. In altre parole, finché non sarà trovata una terapia o un vaccino, nessun paese avrà risolto il problema della COVID-19. Inoltre, come riportano diverse testate – tra cui, in Italia, Repubblica e il Post – la ripresa cinese fatica a prendere piede.

Inoltre, c’è una questione ancora più spinosa da affrontare. Così come la Cina ha tentato di insabbiare la malattia, a dicembre, censurando e perseguitando i primi medici che avevano sollevato il problema, ci sono legittime preoccupazioni sulla veridicità dei dati. A oggi, infatti, si contano quasi 3200 morti nello Hubei, di cui solo 2500 a Wuhan, ma Radio Free Asia (raccontata dal Post qui) stima che nella città siano oltre quarantamila. La stima probabilmente non è scientifica, ma non bisogna dimenticare che i dati divulgati dal regime non sono paragonabili a quelli delle democrazie occidentali, dei quali peraltro continuiamo a ribadire l’inadeguatezza.

Dai nostri alleati naturali, i paesi europei, sono già arrivate donazioni più consistenti di quelle cinesi, senza ricevere la stessa attenzione. Anche l’Unione Europea, attraverso la Commissione e nei limiti del disegno istituzionale dell’UE, ha progettato una risposta.

In un’intervista al Corriere della Sera, il Ministro di Maio ha dichiarato che «Qui non ci sono nuovi scenari geopolitici da tracciare». Non poteva non dire altrimenti, data la sua delicata posizione, ma non bisogna dimenticare che si tratta proprio di questo, perché la pandemia è finora il più grande terreno di scontro tra le due grandi potenze del XXI secolo, Stati Uniti d’America e Cina. La tensione non fa che aumentare e aumenterà radicalmente nei prossimi anni, come già si è visto tra guerre commerciali e 5G: la posta in gioco è un nuovo capitolo della storia del mondo.

 

Articolo di Luca Baggi per Orizzonti Politici

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