Abbiamo parlato a lungo, passando dai temi di politica estera fino al coronavirus.
Nato a Padova, vissuto a Mestre, si laurea in economia a Ca’ Foscari. Consegue un PhD presso la University of Rochester, NY. Professore di economia ed economista, insegna nelle università più prestigiose del mondo. Nel 2006, avendo scelto di rallentare l’attivita’ di ricerca, fonda con alcuni colleghi espatriati come lui – il blog noiseFromAmerika. Nel 2012 è tra i fondatori di “Fare, per fermare il declino”. Nel 2019 fonda “Liberi, Oltre le Illusioni”, insieme a Gianluca Codagnone, Costantino De Blasi, Thomas Manfredi, un movimento culturale che mira a favorire lo sviluppo e l’utilizzo del metodo scientifico nello studio e nella valutazione delle tematiche sociali.
In Italia è sempre più marcata la polarizzazione nei confronti dell’Unione Europea, con posizioni che finiscono inevitabilmente per appiattirsi. Che ne pensa?
Beh, questo non è proprio vero. Gli euroscettici hanno una posizione molto spumeggiante, ben argomentata, anche se con idee e progetti completamente folli. Gli europeisti invece giocano “all’italiana”, in difesa, ma il problema è che non controbattono cercando solamente di mantenere lo status quo di europei.
Allora, secondo lei, quale dovrebbe essere il ruolo dell’Europa oggigiorno?
A questa domanda si può rispondere su due livelli: uno soggettivo e uno oggettivo. Facendo una analisi politico-economica e sociale obiettiva, se vuoi che gli italiani confidino e credano nel progetto Europeo devi proporgli una idea di Europa convincente. Oggi, invece, chi fa l’europeista, come +Europa ad esempio, sembra semplicemente accettare qualsiasi cosa venga dall’Ue.
E a livello soggettivo?
Personalmente credo che che uno dei grandi valori degli Stati Uniti e dell’Europa sia il federalismo. Bisogna accettare il fatto che l’Europa ha origini molto antiche e presenta entità a sua volta molto antiche. Passarci sopra, ignorandole, non solo è da sciocchi ma è anche una delle principali cause della reazione che si sta manifestando negli ultimi anni. Queste “entità federali” — che non sono solo gli attuali stati, ma anche identità e comunità come la Catalogna— hanno bisogno di essere valorizzate. In questo senso l’Europa deve fornire una prospettiva di sviluppo. È fondamentale, poi, raggiungere un’omogeneità linguistica, perché è la condizione necessaria per qualunque unione o confederazione. C’è bisogno di una lingua comune che permetta a tutti i cittadini europei di comunicare liberamente, facendo sì che, ad esempio, una ragazza di Amburgo possa tranquillamente comunicare con uno di Cadiz, e magari sposarsi. Il bilinguismo è una prerogativa. Qui si apre l’annosa questione riguardo quale debba essere la lingua comune europea, il che mi pare abbastanza scontato, cioè l’inglese. Ad ogni modo, l’uscita della Gran Bretagna dà una grande mano, perché fa dell’inglese una sorta di “lingua libera”.
Passando al lato economico, cosa bisognerebbe fare?
Dal punto di vista economico penso sia cruciale affrontare il tema dell’assicurazione mutua. È impossibile pensare a qualsiasi idea di Europa, sia essa come unione, federazione o confederazione non affrontando questo tema. Questo discorso dovrebbe essere introdotto dai Paesi che ne hanno più bisogno come l’Italia e la Spagna. Ma è vero che anche altri Paesi più virtuosi come la Germania ne hanno bisogno. È ovvio che nella forma in cui viene presentata dai “terribili” europeisti italiani la risposta sarà sempre no. Mi riferisco anche alle uscite di Renzi quando era al governo , che parlava di “dover batter i pugni sul tavolo“. È folle pensare che i partner europei finanziariamente più oculati debbano farsi carico del nostro debito. In questa direzione qualcosa è già stata fatta, come il Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes), ma non è abbastanza.
Quale potrebbe essere una strategia europea per l’Italia?
Si dovrebbero fare due cose. La prima è mettere in sicurezza il debito, garantendo di non farlo crescere più. Non c’è bisogno di ridurlo, non c’è ragione economica per farlo. Una volta fatto questo primo passo, occorre proporre una missione europea per finanziare una serie di spese che dovrebbero essere fatte a livello europeo. Penso alle infrastrutture, che in teoria già lo sono, ma in una maniera troppo implicita e contorta. Politicamente ed economicamente sarebbe bene rendere queste spese più esplicite.
Allargando la prospettiva sulla Nato, Macron qualche mese fa ha parlato di “morte cerebrale”, lei è d’accordo?
Macron non ha torto. Oggi alla luce anche della situazione americana, a cosa serve la Nato? Il rischio Russia non c’è più, o almeno se esiste non è più quello dei carri armati sovietici verso Berlino. Visto la capacità militare della Russia, basterebbe anche un serio esercito organizzato dai quattro grandi Paesi europei. La Nato è un’organizzazione gigantesca che non serve più.
Un esercito europeo, quindi?
Sì, ma il problema è riuscire ad elaborare una politica estera comune a livello europeo, cosa che negli ultimi tempi sembra difficile. La Libia ne è l’esempio perfetto, dove i Paesi membri non sono riusciti a formulare una strategia comune, anche per colpa di interessi diversi che hanno portato inevitabilmente a fare scelte diverse. In questo momento gli interessi dei Paesi europei sono troppo differenti. E questa è una conseguenza dell’intervento statale nell’economia, perché finche le grandi aziende avranno legami sia con la politica (che le finanzia e le sussidia) che con la popolazione (che le sente come sue), è difficile coordinare una politica estera comune. Le aziende che si occupano di oil&gas, difesa e sicurezza e altri settori strategici (in Italia, in Francia, in UK, in Germania, eccetera) sono dipendenti dai rispettivi poteri politici nazionali e ne determinano la politica estera. E allora la politica estera comune diventa più difficile, perché non operi più nell’interesse europeo, ma in quello delle aziende che sono legate al proprio territorio. Per avere una politica estera comune bisogna staccare la politica estera dei singoli Paesi dagli interessi particolari nelle loro aziende. È un processo di lungo termine, non si fa da oggi al domani, ma bisogna pur cominciare.
Restringendo la lente di ingrandimento sulla politica estera italiana, Montanelli scriveva che quest’ultima è sempre stata fatta in funzione di quella interna, lei si ritrova in queste parole?
Certamente, come Montanelli chiunque si sia occupato un minimo di storia d’Italia sa che il Paese è nato grazie a un utilizzo della politica estera in funzione di quella interna, basti pensare alla Guerra di Crimea, alla gestione dei rapporti con la Francia di Napoleone III e alla Triplice Alleanza poi. Tutte queste politiche sono state fatte con l’obiettivo di porre rimedio a questioni interne. Dalle campagne coloniali nella seconda metà dell’Ottocento è una lunga tradizione che arriva oggi alle arance spedite in Cina. Fa parte di una certa cultura italiana, che è radicata, profonda, antica, risorgimentale e di carattere fascista che non è cambiata con l’avvento della Repubblica. Sarebbe il caso che qualcuno in politica si ponesse il problema…
Capitolo Coronavirus: Alla fine, come aveva ampiamente previsto Ilaria Capua, il virus è arrivato anche in Italia. Alla luce delle aree colpite, che rappresentano il polmone industriale ed economico del Paese, quali le conseguenze (e gli scenari) economici sul Paese?
Non parlerei di aree colpite, ma piuttosto di focolai. In giro di persone con il virus ce ne saranno migliaia, sicuramente con percentuali più alte al centro Nord ma l’effetto economico lo decidiamo noi.
In che senso?
Nel senso che in Cina, il regime, dopo aver fatto un grave errore sottovalutando la pericolosità del virus tra la fine di dicembre e inizio gennaio, ha dovuto utilizzare il suo potere autoritario, paralizzando il Paese, per porvi rimedio. La scelta era fra il subire un grave danno economico (inevitabile quando paralizzi il Paese) e il correre un grosso rischio politico, ovvero l’insoddisfazione popolare dovuto alla diffusione dell’epidemia e al conseguente moltiplicarsi delle morti. In quel caso hanno scelto di paralizzare il Paese e metterlo in quarantena. Noi non abbiamo questo problema, perché il governo italiano per quanto pessimo non è un’autocrazia. Chi ci governa dovrebbe porsi il problema economico e sociale che Covid-19 comporta. Economico non nel senso di profitti persi, perché il punto non sta lì. La domanda che bisogna farsi è: è corretto paralizzare il Paese in questo caso?
Lei come risponde a quest’ultima domanda?
Che si può paralizzare il Paese solo se sei davanti a un pericolo immane che ti sovrasta. Io non sono un virologo, ma so guardare i dati e ascolto quello che i virologi dicono nel loro campo specifico ed utilizzo questi dati per un’analisi socio-economica, che e’ anche di mia competenza. In questo caso la quasi totalita’ dei virologi ed infettivologi è concorde nel definire la questione come grave, parlando di forma simil-influenzale, ma non disastrosa. Bisogna capire che il Coronavirus non è la peste bubbonica. La valutazione socio-economica è che non c’è bisogno di paralizzare il Paese nel modo in cui si sta facendo, che è anche abbastanza comico. Che senso ha chiudere i comuni un mese dopo che lì è iniziata l’infezione? Chissà quanta gente è già passata da Codogno o dai Colli Euganei.
Come bisogna comportarsi?
Le conseguenze potrebbero essere estremamente gravi se non si gestisce la situazione in maniera estremamente seria e non terroristica. Un atteggiamento da evitare è sicuramente quello del catastrofismo come unico outcome possibile: di fronte a ogni iniziativa, scelta tecnologica o qualsiasi altro fenomeno, si disegna un possibile (nel senso che è possibile a livello teorico) evento futuro catastrofico nel senso più pieno. Questo non riguarda solo il Coronavirus, ma è un atteggiamento che si può estendere a molti altri ambiti.
Tipo?
Un esempio è quello delle centrali nucleari. In Italia non ne abbiamo per paura delle conseguenze disastrose che si avrebbero nel caso ne scoppiasse una, ma qual è la probabilità che una centrale nucleare scoppi? Bassissima, praticamente nulla. Poi il paradosso è che ne abbiamo dozzine sparse tra Francia, Slovenia e Svizzera, che è come pericolosità equivale ad averne in Italia, ma le ignoriamo per motivi di propaganda politica. Lo stesso succede con il Coronavirus: è possibile che il nuovo coronavirus abbia la diffusione dell’influenza e la mortalità della SARS? Si, ma alla luce di quanto sappiamo qual è la probabilità? Bassa. Nella politica del XXI secolo la si pensa altrimenti e ci si basa sulla paura e sulla diffusione mediatica di quest’ultima. Con questo non c’entra nulla la virologia ma la statistica, la dinamica dei sistemi complessi e quella dei costi-benefici (il riferimento è a Burioni, con cui nella serata di domenica si è aperta una accesa discussione su Twitter, ndr).
È un problema culturale del nostro Paese?
Sì, ma non solo. È un misto, e non è un fenomeno esclusivamente italiano. Accade anche altrove, poi ovviamente in Italia si accentua. In letteratura si sta iniziando a studiare la sempre più crescente abitudine da parte dei politici ad adottare misure estreme di fronte ai minimi rischi. Nessuno vuole correre il rischio di essere accusato. È un fenomeno mondiale che nasce dalla paura nell’era di internet.
Influisce una scarsa conoscenza in ambito statistico e probabilistico nella maggioranza della popolazione?
Certamente, anche se è una frase infelice il punto è che c’è una parte della popolazione che va governata invece di farsi governare dalle proprie paure, ma è un argomento delicato. La retorica che alcuni stanno usando in questi giorni, ovvero che bisogna abbondare qualsiasi analisi costi-benefici di fronte al salvataggio di una qualsiasi vita umana, è una bugia ed una assurdità. Perché in questo caso dovremmo chiudere tutti i luoghi pubblici da settembre a febbraio perché così eviteremo che l’influenza causi, direttamente o indirettamente, migliaia di morti come accade ogni anno. Quando parti da queste premesse e ti focalizzi solo su quelle non hai via di scampo.