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Come l’India ha nascosto i poveri durante la visita di Trump

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Stavolta l’idea di erigere un muro non è di Donald Trump, ma per Donald Trump. Così, alla barriera voluta dal presidente americano al confine con il Messico, si è aggiunta quella fatta costruire dal primo ministro Narendra Modi per la due giorni indiana di Trump e consorte, conclusasi nelle scorse ore.

Annunciata in vista di un rafforzamento dei rapporti strategici bilaterali tra i due Paesi, la visita sarebbe servita a ricucire lo strappo dovuto al rifiuto di Washington di esentare New Delhi dai dazi più alti sull’import di alluminio e acciaio, cui ha fatto seguito l’innalzamento delle tariffe su 28 beni Usa ordinato da Modi. Oltre a presentarsi come un’imperdibile occasione per Trump di conquistare il consenso dei cittadini americani di origine indiana in vista delle imminenti presidenziali statunitensi. Ma del viaggio del presidente americano in India rimarranno più le operazioni finalizzate a celare le disuguaglianze presenti nel subcontinente che la funzionalità della sottoscrizione di un accordo bilaterale lontano dalle dichiarazioni d’intenti lanciate in pompa magna alla vigilia dell’incontro.

Con l’obiettivo di oscurare la vista della baraccopoli Sarania Vaas che Trump avrebbe incrociato all’uscita dell’aeroporto di Ahmadabad, nello stato di Gujarat, il primo ministro indiano ha imposto la costruzione di un muro lungo 400 metri e alto poco più di due, per consentire a The Donald di raggiungere lo stadio di Motera senza imbattersi nei poveri dello slum.

La decisione ha suscitato un’ondata di polemiche, nonostante l’immediato tentativo del governo Modi di giustificare i provvedimenti alla luce di piani di sicurezza e operazioni di pulizia e abbellimento del tutto sconnessi dalla visita in programma. Al tentativo di celare i bassifondi si è poi aggiunto un ordine di sgombero immediato nei confronti delle oltre duecento famiglie che popolano lo slum di Ahmadabad. Emblema, nel giorno dell’arrivo di uno dei potenti più ricchi e influenti al mondo, dello iato interposto tra due indie: l’una in attesa del taglio del nastro che di lì a breve avrebbe inaugurato il più grande stadio di cricket attualmente esistente; l’altra alle prese con una sopravvivenza osteggiata dalle mire dei suoi governatori.

Un Paese diseguale

Nonostante la recente battuta d’arresto nella crescita del Pil, l’India continua ad essere una tra le economie in più rapida ascesa nel mondo. Ma anche uno tra i paesi dalle diseguaglianze più accentuate. La rappresentazione plastica di questa situazione la fornisce il rapporto annuale Oxfam, presentato lo scorso gennaio in vista del 50esimo meeting annuale del World Economic Forum.

Secondo lo studio, difatti, l’1% più ricco dell’India detiene oltre il quadruplo della ricchezza posseduta da 953 milioni di persone che rappresentano il 70% della popolazione del Paese, mentre la ricchezza totale di tutti i miliardari indiani è superiore al fatturato che l’India ha realizzato nell’intero anno. Statistiche completate dal dato sulla ricchezza combinata di 63 miliardari indiani, superiore rispetto al bilancio totale dello Stato nell’anno fiscale 2018-2019. Evidenti manifestazioni delle disuguaglianze strutturali che da tre decenni affliggono il subcontinente indiano.

I risultati del sondaggio del National Sample Survey Office dello scorso anno hanno gettato ombre ulteriori sul premier Narendra Modi, evidenziando un tasso di disoccupazione da record. Il numero dei disoccupati del Paese è del 6,1%, circa 11 milioni di persone, a fronte del 2,2% del biennio 2011/12. Un tasso mai così elevato da 45 anni, e che necessiterebbe dell’assunzione annuale di 12 milioni di giovani per mantenere costante il rapporto tra lavoratori e impiego.

Due misure recenti del governo Modi sarebbero artefici del peggioramento della situazione sul fronte occupazione: la demonetizzazione, con la quale il primo ministro ha eliminato le banconote da 500 e 1000 rupie per abbattere la corruzione, ma con il risultato di ritirare l’86% del valore del contante in circolazione e con il conseguente rallentamento dei consumi. E la tassazione unica sulle merci e sui servizi, che, al pari della demonetizzazione, non sembra aver convinto gli esperti.

Il Paese del boom economico non manca, dunque, di endemiche contraddizioni. Come le circostanze in cui versano i senzatetto indiani, accresciuti con l’ascesa economica dello Stato. Il problema dei bambini di strada, spesso sepolto sotto i liquami delle crescite economiche trimestrali, è riemerso preponderante con la visita indiana nell’aprile 2016 del principe William e della duchessa di Cambridge Kate Middleton. Giunte a Delhi, le altezze reali hanno incontrato i giovani senzatetto, prestando il consenso a un viaggio nell’India povera e disagiata che quell’anno aveva fatto registrare tremila decessi per strada a causa del freddo e della scarsa igiene. Dopo l’immediata polarizzazione mediatica, tuttavia, le Ong che da anni sono in prima linea per mitigare il dramma dei poveri indiani sono state abbandonate. E, spenti i riflettori, l’emisfero indigente è tornato a languire.

Per sopperire all’emergenza igienica, storicamente al centro delle preoccupazioni dei governi, nel 2014 il presidente Modi ha lanciato la campagna quinquennale “Swachh Bharat” (India pulita) tesa alla creazione di latrine pubbliche nei villaggi per ridurre le infezioni derivanti dalla defecazione pubblica, e volta inoltre alla costruzione di nuovi slum e alla ristrutturazione delle baraccopoli in condizione precarie. Obiettivo, questo, non sempre accompagnato da adeguate iniezioni finanziarie e politiche sociali, come dimostra la lettera di protesta consegnata nel 2016 alla Commissione nazionale dei diritti umani dai giovani senzatetto, a seguito dello “sfratto” dai marciapiedi del Connaught Place ordinato dal consiglio comunale di New Delhi per rendere la città a portata di turista.

Nulla di diverso da quanto accaduto nelle scorse ore in occasione della visita di Trump, costata alle casse dello stato del Gujarat l’1,5% del Pil annuale, con 12 milioni di dollari per i lavori complessivi di edificazione e pulizia, di cui 4,2 milioni usati solo per ripulire la zona attorno al nuovo stadio di cricket, in ottemperanza all’ormai consueto “piano di abbellimento” del subcontinente indiano.

Le divisioni sociali e religiose

Accanto alle sperequazioni economiche, l’India conosce forti divisioni sociali e religiose. Abolito formalmente il sistema delle caste, l’assetto sociale indiano si caratterizza ancora oggi per una forte disparità, gravata da conflitti atavici mai sopiti del tutto. È di ieri il referto di 20 morti e 189 feriti fornito da fonti ospedaliere di New Delhi, dopo gli scontri iniziati domenica scorsa e proseguiti durante la visita di Donald Trump a causa della riforma della legge sulla cittadinanza del governo Modi. Mentre il primo ministro veniva elogiato dal presidente americano come “campione della libertà di culto”, a New Delhi decine di persone venivano uccise per le proteste seguite alla proposta di agevolazione dell’iter di ottenimento della cittadinanza indiana nei confronti degli immigrati non musulmani provenienti da Pakistan, Bangladesh e Afghanistan.

Un provvedimento in linea con la teoria conservatorista dell’Hindutva – il nazionalismo indù – che propone uno stato purificato dalla religione islamica, propugnata in particolare dai movimenti suprematisti indiani come il gruppo paramilitare RSS. Dopo la separazione del Pakistan nel 1947, i conflitti religiosi hanno continuato a imperversare nel subcontinente indiano e con il Citizenship Amendment Act i malumori hanno trovato una valvola di sfogo considerata fautrice della più grave crisi socio-politica dei 72 anni di democrazia in India. I video sulle proteste degli ultimi giorni dimostrano l’inerzia delle forze dell’ordine durante gli scontri. Un filmato riprende un negozio in fiamme colpito dai manifestanti con grosse pietre. Il tutto sotto gli occhi degli agenti, solo in serata impegnati in operazioni di contenimento. Ma più di qualche indizio induce a pensare che le forze dell’ordine non siano interessate a porre fine alle manifestazioni violente, delle quali il programma nazionalista di Narendra Modi potrebbe avvantaggiarsi.

Pierfrancesco Albanesehttps://orizzontipolitici.it
Nato a Galatina (Le) nel 1998. Dalla prima caduta le testate fanno parte della mia vita: soprattutto quelle giornalistiche. Collaboratore di Leccenews24 e Piazzasalento, studio Giurisprudenza presso l'Unisalento.

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