Sono trascorsi più di sette mesi dal 14 Agosto 2021 quando, dopo 20 anni di campagna militare USA, i talebani hanno preso il potere in Afghanistan. Di nuovo. Il regime islamista infatti era caduto nel 2001, proprio grazie all’intervento americano attraverso l’operazione “Enduring Freedom”. Un impegno destinato però a concludersi, simbolicamente, l’11 settembre dello scorso anno, a seguito degli accordi di Doha. Nel contesto del ritiro militare USA e dei loro alleati, il gruppo armato ha quindi dato vita ad un conflitto lampo di circa tre mesi, conclusosi con la conquista di Kabul. Entrati nella capitale senza incontrare resistenze, i talebani hanno approfittato della resa delle forze di sicurezza ma soprattutto della fuga dell’ex presidente Ashraf Ghani per poter prendere il controllo del palazzo presidenziale.
Difficili da dimenticare le immagini di migliaia di persone accalcate all’aeroporto della capitale, nel disperato tentativo di lasciare il Paese. Altrettanto indelebili nella memoria collettiva le dichiarazioni del capo del gruppo armato che, in occasione della prima conferenza stampa, prometteva rinnovata “serenità” per il popolo afghano. Ma qual è la situazione in Afghanistan mesi dopo la presa di Kabul?
Talebani: promesse ed identità in Afghanistan
La parola “talebano” in pashtu significa “studente” o “ricercatore”. Il gruppo dei fondamentalisti islamici si forma nei primi anni ’90 nelle scuole coraniche afghane e pakistane per ripristinare, dopo il ritiro dell’URSS dall’Afghanistan, la propria concezione di pace e sicurezza. L’ascesa del gruppo è stata rapida ed efficace e, in pochi anni, sono riusciti a conquistare gran parte del Paese. Prima dell’intervento americano, il gruppo impose nei territori che controllava un’interpretazione molto radicale della sharia, la legge islamica: furono introdotte norme molto restrittive delle libertà personali delle donne, esecuzioni pubbliche e televisione, musica e cinema furono vietati.
Venti anni dopo, i talebani sembrano però voler mostrare un’altra immagine dell’emirato islamico: flessibile, ragionevole e moderato. Alla prima conferenza stampa infatti, il portavoce del gruppo ha garantito che nessun alleato delle forze straniere sarebbe stato minacciato o vessato, che le donne avrebbero potuto studiare e lavorare rispettando i precetti dell’Islam e che un “governo inclusivo” sarebbe stato formato per garantire la sicurezza dei cittadini.
Nonostante le numerose rassicurazioni, gli avvenimenti degli scorsi mesi sembrano però riflettere una realtà diversa fatta di povertà, mancanza di istruzione e di qualsiasi basilare tutela dei diritti fondamentali.
Quotidianità in Afghanistan tra povertà e carestia
Oggi l’Afghanistan è un Paese sull’orlo del fallimento, “attaccato ad un filo”, come ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Quello che oggi mette più in ginocchio la popolazione è la povertà, con tutte le sue conseguenze: i finanziamenti internazionali all’Afghanistan sono infatti stati sospesi ed i fondi all’estero congelati, principalmente negli Stati Uniti. Il costo di prodotti alimentari come olio, grano e riso sono aumentati del 55% lo scorso anno, rimanendo fuori dalla portata di molte famiglie. Milioni di posti di lavoro sono stati perduti, in quanto alle donne è consentito lavorare solo in alcuni settori ritenuti idonei dal quadro della legge islamica, come l’istruzione e la sanità.
Per questi motivi, migliaia di famiglie sono state costrette a contare sul lavoro dei propri figli: secondo un rapporto di Save the Children le condizioni dei bambini afghani, provati da anni di guerra e sofferenza, sono ulteriormente peggiorate negli ultimi mesi. Nel Paese più di 5 milioni di bambini sono ad un passo dalla carestia e, secondo le proiezioni dell’organismo ONU per il 2022, più di 1 milione di bambini avranno bisogno di cure per la malnutrizione acuta grave.
Istruzione femminile: un obiettivo ancora lontano?
Nel settembre 2021 le scuole secondarie afghane sono state riaperte. Ma solo per gli studenti maschi. Alle studentesse invece, è stato solo concesso l’accesso all’educazione primaria e alle università, i cui corsi sono stati rivisti per creare classi di sole donne, comprese le docenti. Non solo: per recarsi in università le studentesse devono essere accompagnate dal marito o da un parente maschio, sempre indossando un hijab. Le scuole secondarie, equivalenti alle medie e alle superiori italiane invece, avrebbero dovuto aprire i propri cancelli lo scorso 23 marzo, ma così non è stato.
Il governo afghano ha infatti cambiato idea all’ultimo minuto: Aziz-ur-Rahman Rayan, portavoce del ministero dell’Istruzione, ha dichiarato in quell’occasione che le scuole non avrebbero riaperto finché lo stesso ministero non avesse preparato un piano per permettere alle donne di andare a scuola, rispettando la cultura afghana e la sharia. L’attuale divieto per le ragazze afghane di accedere all’istruzione secondaria crea quindi un vuoto tra le scuole elementari e l’università, violando di fatto il diritto allo studio. Nonostante le rassicurazioni dunque, sembra che il Paese stia tornando a misure molto simili a quelle che avevano caratterizzato il primo regime talebano in Afghanistan, tra il 1996 e il 2001.
Talebani ad Oslo: il primo incontro con la comunità internazionale
Dallo scorso agosto il gruppo armato ha viaggiato in Russia, Iran, Pakistan, Qatar, Turkmenistan e Cina. Solo lo scorso gennaio però, essi hanno inviato per la prima volta una propria delegazione in un Paese occidentale: la Norvegia. I talebani infatti, hanno partecipato ad Oslo a tre giorni di colloquio con funzionari di Paesi occidentali e rappresentanti della società civile afgana, nello specifico attiviste per i diritti delle donne. Al tavolo si sono riuniti Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Italia, Germania e Norvegia per spingere i talebani a trattare sul tema dei diritti umani, soprattutto delle donne.
Un’altra questione spinosa in cima all’agenda internazionale, rimasta senza una concreta soluzione, era quella relativa agli aiuti economici: come è possibile supportare la popolazione afghana senza sovvenzionare il governo talebano? Nonostante i colloqui non avrebbero dovuto essere considerati come un riconoscimento del regime, un funzionario talebano ha dichiarato che gli incontri hanno costituito un “passo per legittimare il governo afghano”. Anche l’opinione pubblica si è espressa in disaccordo con l’iniziativa diplomatica: “non si parla con i terroristi” è stato lo slogan dei manifestanti a Oslo.
Chi è pronto a riconoscere il governo talebano?
Mentre per il mondo occidentale il riconoscimento del governo talebano potrà essere discusso solo in presenza della conditio sine qua non del rispetto dei diritti fondamentali della persona, per gli attori regionali le carte in tavola sono ben diverse: essi basano infatti la propria decisione sull’analisi degli interessi economici e securitari che ne potrebbero potenzialmente ricavare. Lavorare al fianco del governo talebano significherebbe infatti aumentare il livello di sicurezza delle frontiere ed incentiverebbe gli investimenti.
Per questi motivi la visita di tre diplomatici talebani all’ambasciata afghana in Iran lo scorso aprile, è sembrata una prima mossa del governo iraniano verso il riconoscimento del governo talebano. Ancora nessun Paese al mondo ha concretamente riconosciuto il governo dei fondamentalisti islamici; tuttavia Stati come il Pakistan, la Russia, il Turkmenistan e adesso anche l’Iran hanno accettato diplomatici inviati dai talebani.
Dopo il ritiro del contingente americano il Paese è piombato nuovamente in un baratro fatto di carestie, povertà e mancanza di istruzione. Sebbene nessuno conosca il futuro che attende l’Afghanistan, gli avvenimenti degli ultimi sette mesi non fanno ben sperare e le promesse talebane dei primi giorni sembrano essere destinate a rimanere vane speranze.